Tra postfordismo e Baricco

Creato il 02 settembre 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

Stroncare è una necessità deontologica: punto e basta. Il resto è fuffa. Ma certo che sì: poi si può dire, in maniera diplomatica, che non è brutto e nemmeno bello, e così non si scontenta nessuno. Oppure: si può dire, bello. Per dire brutto senza possibilità d’appello invece ci vuole un critico e non un lustrascarpe. Ma siamo in un paese di lustrascarpe, e tanto fa. E i cancri del tutto bello continuano a far metastasi: ci vorrebbe un oncologo, altro che un critico o due che seguono la deontologia.

Alessandro Baricco non ci sta, quello che dicono i critici sulle sue opere proprio non riesce a ingoiarlo e nemmeno riesce a far buon viso a cattivo gioco: sa però fare cattivo viso a quella che è una critica sin troppo generosa: “In realtà è cambiato il mestiere di scrittore perché è cambiato il campo di gioco. Da Fenoglio a me le differenze sono enormi. Noi lavoriamo con un pubblico molto più ampio che Fenoglio non ha mai visto. Mentre in passato leggeva libri chi aveva passione per la lettura, oggi li comprano persone che transitano attraverso i libri, che hanno altre passioni. Sennò non si spiegherebbe come mai tra i primi quindici libri in classifica dieci sono scritti da persone della tv o esistono anche in versione cinematografica e così via… vedono Vespa in tv e quando lui decide di scrivere un libro sul Risorgimento lo comprano, così lo scrittore è diventato un personaggio dalle molte facce: appare in tv, collabora con giornali, incontra i lettori ai festival”.
Alessandro Baricco si sfoga dimenticando però che Beppe Fenoglio per lui è inarrivabile così come per tutti: o meglio, Fenoglio non è imitabile. Omette quella che è la questione della qualità: certo che da Fenoglio a Baricco le differenze sono enormi, ma non perché il primo ha scritto i suoi romanzi e racconti circa cinquanta anni or sono, o perché il pubblico è radicalmente cambiato, difatti anche ieri c’era Pippo Baudo in tv e oggi uguale a ieri. Baricco dimentica che c’è pubblico e pubblico: uno di qualità e uno molto (troppo) vasto, e il secondo è perlopiù di scimmie plaudenti che non saprebbero riconoscere la differenza fra l’elenco delle Pagine Gialle e Guerra e Pace di Lev Tolstoj. Questo pubblico così vasto cui allude Baricco dice di entrambi i volumi la stessa identica medesima riduttiva critica, entrambi parlano di tante persone. Alessandro Baricco al Festivaletteratura di Mantova 2006 a.c. si sfoga. Ma gliene frega ben poco a nessuno: per fortuna. Il ruolo del critico è anche quello di non star dietro a ogni tiramento del momento che l’ultimo scrittore alla moda o no si inventa al mattino.

La meritocrazia in Italia non esiste. Sì dà via qualcosa, ve lo lascio immaginare: a volte in maniera figurata, altre no.

Si dice, lo dice soprattutto la Sinistra che le lobbies non esistono: i sinistrorsi ne hanno fatto un manifesto che gridano in strada, a ogni occasione, per far vedere quanto sono belli e bravi. Ma le lobbies esistono eccome: se non sei dei loro, ti segano le gambe, si fanno terroristi. La Sinistra che è poi quella che non ti paga mai, o se sì mai il giusto e con ritardi che definire mostruosi è poco. E quando scrivo Sinistra intendo soprattutto lo stalinismo: perché di fatto lo stalinismo è il male insediatosi in Italia, un male non peggiore del capitalismo. E per la precisione: siamo oramai in una Italia cattostalinista e capitalistica, un autentico abominio.

Indicava Oscar Wilde ne “Il Critico come Artista”, ormai ben più d’un secolo fa, una verità più che mai attuale e che i critici alla moda (di oggi) hanno volontariamente dimenticato: “Il critico sarà un interprete, se sceglie di esserlo. Egli può passare dalla sua impressione sintetica dell’opera d’arte come un tutto, ad un’analisi o esposizione dell’opera stessa, e in questa sfera inferiore, come io la considero, vi sono molte cose deliziose da dirsi e da farsi. Oltretutto il suo oggetto non sarà sempre riferito all’opera d’arte. Egli può cercare di addentrarsi nel mistero dell’opera d’arte, di alzare intorno a essa, e intorno al suo creatore, quella bruma di stupore che è cara agli dèi come ai fedeli. La gente comune è «terribilmente a suo agio a Sion». Propone di passeggiare a braccetto con i poeti, e dicono in modo disinvolto e ignorante, «perché dovremmo leggere ciò che viene su Shakespeare e Milton? Possiamo leggere i drammi e i poemi. Questo basta». Ma una valutazione di Milton è, come l’ultimo rettore di Lincoln rimarcò una volta, il premio di un sapere completo. E colui che desidera comprendere Shakespeare veramente deve capire le relazioni che Shakespeare ebbe con il Rinascimento e la Riforma, l’epoca di Elisabetta e l’epoca di Giacomo; deve avere familiarità con la storia della lotta per la supremazia tra le vecchie forme classiche e il nuovo spirito del romance, tra la scuola di Sidney, di Daniel, e di Johnson, e la scuola di Marlowe e del più grande figlio di; deve conoscere i materiali che furono a disposizione di Shakespeare, e il metodo con cui li usò, e le condizioni della rappresentazione teatrale nel sedicesimo e diciassettesimo secolo, i loro limiti e le loro chances per la libertà, e la critica letteraria ai tempi di Shakespeare, i suoi scopi, i modi e i canoni; deve studiare la lingua inglese nella sua evoluzione, nel blank verse o nel verso rimato nei suoi vari sviluppi; deve studiare il dramma greco, e la connessione tra l’arte del creatore di Agamennone e l’arte del creatore di Macbeth; in una parola, dev’essere in grado di legare la Londra elisabettiana all’Atene di Pericle, e di apprendere la vera posizione di Shakespeare nella storia del dramma europeo e mondiale. Il critico sarà certamente un interprete, ma non tratterà l’arte come una Sfinge che propone enigmi, il cui segreto meno profondo può essere indovinato e rivelato da uno dai piedi feriti e ignaro del suo nome. Piuttosto, egli contemplerà l’arte come una dea il cui mistero è sua competenza intensificare, e la cui maestà è suo privilegio rendere più meravigliosa agli occhi degli uomini. […] Il critico sarà davvero un interprete, ma non lo sarà nel senso di uno che ripete semplicemente in un’altra forma un messaggio che gli è stato messo in bocca. Poiché, proprio come solo attraverso il contatto con l’arte delle nazioni straniere che l’arte di un paese acquista quella vita individuale e separata che noi chiamiamo nazionalità, così, per curiosa inversione, è solo attraverso l’intensificazione della sua propria personalità che il criticò può interpretare la personalità e l’opera di altri, e più questa personalità entra con forza nell’interpretazione più reale diventa l’interpretazione, più soddisfacente, più convincente, più vera.”

Il serio problema è che oggi il critico – perlomeno chi si dice tale – non legge i volumi, non gode dell’opera d’arte e non la gode: si limita a prender nome del sedicente scrittore (artista), dell’editore, si fa due conti in tasca, e poi decide su due piedi se dirne bene del poco che ha fra le mani, solitamente un librettino di nessun valore letterario ma il cui prezzo di copertina sembra una macabra risata strappata dalla Gola di Dracula.

Ma mentre ieri il critico faceva il Critico e Wilde s’interrogava circa il ruolo del Critico come Artista, c’è invece chi oggi, in tutta scioltezza, cerca di farci passare i Pokémon per cultura: al banco degli imputati, Loredana Lipperini, “Oggi, a mania sempre presente ma messa in ombra da centinaia di replicanti, resta da capire perché siano stati così amati. Forse perché fanno leva sull’antica attitudine infantile al collezionismo. Forse perché sono la perfetta incarnazione del desiderio postfordista, che sostituisce la durevolezza della merce con la sua moltiplicazione, e la sua vacuità. O forse, infine, perché grazie a loro i bambini hanno creato la prima comunità planetaria che esclude inesorabilmente gli adulti. Lo intuì un giornalista giapponese: ‘I bimbi li adorano perché sanno che i grandi non possono capirli’.” C’è solo da sperare che non venga eletto un Pokémon come ideale Critico per il mondo delle lettere tutto, anche se a leggere certe recensioni patinate “che né i grandi né i piccoli capiscono” il sospetto forte può essere uno soltanto: il cervello di molti, di quelli che oggi avanzano pretese critiche, è stato infettato dalla pokémania. La pokémania che ha scalzato il pensiero di F.W. Nietzsche, con tanto di Bill Clinton a citarli ‘sti Pokémon: che il vecchio Bill non abbia mai brillato per intelligenza credo sia chiaro a tutti, non a caso è bastata una ragazzetta dall’aria campagnola, Monica Lewinsky, con un blowjob per succhiargli via il senno tutto. E però entrambi sono rimbalzati sulle colonne dei giornali di tutto il mondo, riuscendo a obnubilare il successo di fama e di pubblico di Pikachu. Ancora oggi la coppia Bill e Monica è la più bella e tenebrosa del mondo, nonostante si vociferi che Monica – ovviamente per una questione di salute mentale – abbia perso la bellezza di diciassette chili. Una cosa è certa: per far la stagista alla Casa Bianca bisogna avere il cervello di un Pokémon e anche la linea, cioè larga, molto allargata e aperta.

Per il momento concludo con questa riflessione: ho conosciuto un vero uomo, sì, certo; si cambiava le mutande almeno tre volte al giorno. Se faceva sesso il sesso se lo lavava sotto l’acqua corrente, dopo l’atto, per almeno mezz’ora buona. Era un duro, un vero duro, sempre coi profilattici e tre ricambi intimi a portata di mano. Non ha mai avuto figli. Quando è venuto a casa mia per passare la notte si è comportato da vero gentilomo: al mattino, una volta svegliatomi, ho trovato l’appartamento più vergine di me, completamente vuoto. Però il peggio è stato scoprire che il mio amico se l’era squagliata a gambe levate. Gl’avrei dato il cielo e l’inferno, doveva solo chiedere. Non ce l’ho con lui, non potrei mai: mi spiace solo che abbia tagliato la corda prima che la nostra amicizia potesse diventare qualcosa di più duraturo e profondo. Non faccio il bidé da una vita oramai: la delusione è stata davvero troppo grande perché potessi digerirla così, su due piedi. E in tutto ciò non c’è davvero niente che si possa dire postfordista: è solo una emerita castroneria, una delle tante che io sparo ma che tanti altri – che han su ‘na gran faccia di tolla – pubblicano dicendo che si tratta di letteratura.

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