Rorty non concorda con i molti autori che insistono sulla necessità di “rifondare” la teoria della democrazia. La sua opinione è che la democrazia non abbia – né richieda – fondamenti, e che l’idea di trovare per essa delle basi speculative sicure sia profondamente errata. E parimenti errato giudica il legame di filiazione che i più pongono tra la democrazia da un lato, e il razionalismo universalistico dell’Illuminismo dall’altro. Il modo più certo per fare cattiva filosofia politica è a suo avviso quello che si propone di “tenere insieme in una visione unitaria la realtà e la giustizia”, unendo la concezione – che è inevitabilmente personale – della responsabilità morale e politica con le determinanti ultime del nostro destino.
Coloro che si propongono tali obiettivi, egli scrive, “vogliono vedere l’amore, il potere e la giustizia penetrare insieme nella natura delle cose, nell’animo umano, nella struttura del linguaggio o da qualche parte. Vogliono essere in qualche modo garantiti sul fatto che il loro acume intellettuale e gli speciali momenti estatici che esso talvolta produce, siano importanti per le loro convinzioni morali. Pensano ancora che la virtù e la conoscenza sono in qualche modo legati – che aver ragione nelle questioni filosofiche sia importante per una giusta azione. Io credo che ciò sia importante solo occasionalmente e incidentalmente”.
Rorty parte – credo giustamente – dalla constatazione che ogni visione totalizzante della realtà, che voglia piegare la prassi e la storia ad alcuni assiomi filosofici fissati a priori per costruire un ordine studiato a tavolino, non solo è destinata al fallimento, ma è pure foriera di guasti che superano di gran lunga i benefici che il filosofo aveva in mente di conseguire.
E’ sufficiente tutto questo a giustificare il relativismo? Sì, se prendiamo in considerazione il concetto rortyano di “ironia”. Quando gli viene chiesto perché la giudichi tanto fondamentale, il filosofo americano risponde che l’ironia, ancor più che nella vita pubblica, è fondamentale nella vita privata, giacché consente all’intellettuale secolarizzato di sentirsi non più un invididuo che si autoattribuisce il diritto di dire agli altri come debbano vivere, bensì “un figlio del proprio tempo”, ovvero un prodotto storicamente contingente nel senso che attribuiva a tale espressione il pragmatista John Dewey.
L’intellettuale che non adotta questo tipo di approccio alla realtà e alla vita “rischia di perdere il senso della finitezza e della tolleranza che risulta dal capire quante visioni sinottiche ci sono state e quanti pochi argomenti si possono dare per scegliere tra loro”. Si noti per inciso che Rorty usa il verbo scegliere, e questo fatto ci porta al cuore del problema che dobbiamo dirimere analizzando il suo “liberalismo ironico”. La scelta, infatti, è l’atto fondamentale che tutti noi dobbiamo compiere quando si tratta di giustificare la visione del mondo cui diamo la nostra adesione.
Rorty concepisce la realtà sociale come una rete formata da nodi, la cui esistenza è data soltanto dall’essere ognuno in relazione con l’altro. Tuttavia, mentre è chiaro che i nodi hanno un senso solo entro la rete, non è meno evidente che il significato della rete è data dal fatto di essere formata da singoli nodi. L’assenza di anche uno solo di tali nodi renderebbe la rete diversa da come attualmente è. Egli insiste quindi sulla nozione di “relazione”, rifiutando l’obiezione tradizionale secondo cui la struttura della realtà non può basarsi soltanto sulle relazioni che sussistono tra gli enti.
La rete senza centro e senza confini definiti di cui Rorty illustra i benefici, e all’interno della quale tutti gli oggetti sono al medesimo livello, è anche una rete di individui, la cui consistenza non può essere stabilita considerando ciascuno di essi separatamente. Il valore di un individuo non è, secondo questa visione, dato da tratti caratteristici e specifici, bensì dalle relazioni che detto individuo intrattiene con tutti gli altri inclusi nella rete.
Non essendovi alcun centro che conferisca alla rete stessa un significato ultimo, il senso della presenza degli individui nella rete sarà, appunto, soltanto relazionale. Pietro, Giovanni e Marco non possono essere presi in considerazione l’uno distintamente dall’altro, in quanto la presenza di Pietro è giustificata soltanto dall’essere egli in relazione con Giovanni e con Marco, e lo stesso dicasi di Giovanni e Marco in relazione a Pietro.
La nebbia da cui la filosofia politica rortyana sembrava avviluppata comincia, dunque, a dissiparsi. Se, infatti, la struttura di un corpo politico e sociale è vista come una rete entro la quale ciò che conta sono soltanto le relazioni sussistenti tra i nodi che la compongono, allora è del tutto ovvio che ogni ricerca volta a trovare dei fondamenti sui quali si regge è votata al fallimento. Le relazioni sono i fondamenti, ma si tratta in effetti di fondamenti di tipo un po’ speciale.
Essi non potranno mai dirci in modo ultimativo quali scelte dobbiamo compiere in una certa occasione. Per scegliere, dovremo tenere gli occhi incollati su quanto fanno gli altri nodi della rete (ed essi, dal canto loro, dovranno fare lo stesso rispetto a noi), in quanto, in ultima analisi, il nostro destino non è individuale, ma relazionale. Il più piccolo movimento all’interno della rete si ripercuote, a ondate successive, su tutto il resto della struttura, e nessun nodo può ambire ad un ruolo primario: il centro è, al contempo, ovunque e in nessun luogo.
Ed ecco, allora, che tutte le affermazioni rortyane che si riferiscono specificamente al contesto socio-politico ricevono dal quadro precedente una giustificazione puntuale. Diventa infatti legittimo, partendo proprio da quelle premesse, affermare che non esistono punti di riferimento incrollabili, e parimenti lecito risulta sostenere che l’oggettività si raggiunge mediante il maggior accordo intersoggettivo possibile. Né desta più sorpresa il fatto che il filosofo americano non veda strategie che possano appurare in modo plausibile e definitivo la superiorità di un ordinamento sociale e politico rispetto a un altro.
Eppure Rorty è convinto che la forma di vita cui hanno dato luogo le società liberal-democratiche dell’Occidente sia la migliore fra quelle finora elaborate dall’umanità nel corso della sua storia; che la nostra concezione morale sia migliore delle altre; e che il capitalismo del welfare state è il meglio che si possa sperare. Tuttavia, se qualcuno gli chiede perché egli manifesti certezza a proposito dei punti precedenti, il filosofo americano si rifiuta di fornire risposte precise. Da un lato afferma che la battaglia per alleviare la sofferenza degli altri non si basa su ragioni che chiunque può condividere, ma su un background contingente che deriva dalla nostra particolare forma di vita. Dall’altro sostiene che ciò che conta è la solidarietà umana affidata alla volontà degli individui.
Rorty ci fa riflettere sull’estrema difficoltà di fondare la democrazia – e il liberalismo – su basi assolute, e occorre rilevare a tale proposito che la lezione di Max Weber è ancora valida. E’ chiaro che siamo in presenza di una proposta assai meno strutturata di altre che oggi dominano la scena filosofica, ma occorre pur rammentare che non sempre i progetti forti sono quelli più fruibili nella vita quotidiana. Un approccio di tipo pragmatico ci consente di considerare la liberal-democrazia come una visione del mondo contingente e transitoria, e di non escludere l’eventualità che essa possa essere sostituita in futuro da una visione nuova di cui, oggi, è difficile determinare i contorni.
Featured image, ritratto e firma di Immanuel Kant, fonte Wikipedia.