Train In Vain

Da Julesdufresne

La Titolare non è una persona particolarmente piacevole. Sono lunatica, un po’ ripetitiva, molto pigra, e nelle occasioni sociali alterno silenzi agghiaccianti ad esplosioni incontrollate di umorismo nervoso. Non sono nemmeno particolarmente carina, dal vivo: non un cesso, ma niente che vi voltereste a guardare per strada.

(Tranne le rare volte che mi azzardo ad uscire con il rossetto e poi mi dimentico di averlo addosso, nel qual caso è probabile che vi voltereste per cercare di capire da quale bizzarra sindrome dermatologica sia affetta quella povera ragazza con un grosso rash color prugna sulla guancia sinistra)

Per questa serie di ragioni, il fatto che ci sia gente entusiasta all’idea di trascorrere del tempo in mia compagnia non manca mai di lasciarmi profondamente e sinceramente stupita – non parliamo neanche del sant’uomo che mi si è accollata a tempo pieno, visto che la sua mera adorabilità mi fa a volte sospettare che sia semplicemente una proiezione della mia piccola mente desiderosa.

(… uh, ma “adorabilità” è una parola vera!)

Dicevamo, stupore all’idea che qualcuno voglia investire alcune delle sue ore faccia a faccia con me. Stupore che a volte -stupidamente- mi porta ad accettare anche incontri in luoghi esterni alla mia Zona Percorribile (ogni posto raggiungibile con le linee 1 e 2 della metropolitana milanese), salvo pentirmi della cosa prima ancora di aver calcolato il percorso su Google Maps. I cambi di linea mi mettono ansia. I mezzi di superficie mi mettono molta ansia. I tragitti da percorrere a piedi mi gettano in uno stato di prostrazione. Le coincidenze risicate (<30 min=risicata) rischiano ogni volta di uccidermi. Sono una larva.

I miei amici, che non sono stupidi, lo sanno. Quindi, per attirarmi altrove, mentono. Mercoledì scorso mi telefona il mio amico S., che è sia romagnolo che falso come giuda: "Cara, sabato per pranzo sarei a Milano. Ci vediamo". Certo, molto volentieri, fissiamo, bene bene, ci sentiamo poi per i dettagli.

Giovedì notte (approfittando del torpore notturno), la rivelazione. "Guarda, non è proprio Milano-Milano… Pavia. Bene uguale?". Ansia, terrore, treno, cambiamento di programma, senso di colpa, ci vediamo una volta l'anno a dir tanto – va bene lo stesso, certo, sì.

Sabato mattina, mentre io già attendevo trepidante il primo dei tre mezzi pubblici previsti: "Allora, qui c'è un po' di coda, non riesco ad essere a Pavia per l'ora che avevamo detto. E se tu mi raggiungessi a Piacenza? Poi arriveremmo in macchina fino a Pavia, in tempo per il tuo treno di ritorno.”

(Sì, avete capito bene: il piano era che io prendessi un treno appositamente per poter poi percorrere un tratto di autostrada, potenzialmente congestionato. Cosa devo dirvi, sono un’originale, mi piace andare controcorrente.)

Dieci minuti e la promessa di poter poi cantare impunemente in macchina (“non aspettavo ti giuro NESSUNOOOO”), ho ansiosamente acconsentito a recarmi in una direzione differente da quella preventivata.

Vi risparmio le meste disavventure alla biglietteria automatica, gli abbacinanti -brevi, ma abbacinanti- sforzi anaerobici propedeutici alla cattura del treno corretto, i miei tentativi maldestri di celare ai vicini di posto il titolo dell’imbarazzante trattatello teologico che sono costretta a studiare, la sosta pipì nel centro commerciale più brutto dell’universo mondo.

Nominerò solo l’onore di aver mangiato in un ristorante dove si entrava citofonando, il menu veniva letto ad alta voce e poi lasciato alla nostra elaborazione mnemonica, i cappotti venivano requisiti all’ingresso e il mio amico si è preso un cazziatone campanilistico mica da poco per aver timidamente domandato dello gnocco fritto.

Il culatello era però molto buono, e la compagnia eccellente.

(Non andate a Piacenza. Non andateci. Una volta ho perso un treno importantissimo, a Piacenza. Brutto posto.)

[A breve: una foto della Titolare seduta al ristorante, intenta ad essere una compagnia pochissimo piacevole]



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