Danilo Capua
Aspettavo il crepuscolo sulla poltrona di vimini davanti alla finestra. Seduto, con lo sguardo fisso al davanzale, intercettavo l’annacquarsi del tramonto tra il groviglio delle piante. Lasciavo le ante aperte perché nulla impedissealla luce violacea di impossessarsi della stanza. Rallentavo il respiro per non violare il silenzio. L’unico suono che accompagnava la sacralità del momento era lo sfrigolio della lampadina dell’abat-jour. Su quello non avevo poteri, ma in fondo rasserenava l’inquietudine di una giornata ormai finita. Il viola e l’arancio investivano la poltrona e invitavano allo spettacolo.
Un’ombra imprevista si formò all’orizzonte, un gruppo proteiforme che zigzagava nel cielo. Lo stridio propagatosi nello spazio oscurò il viola e l’arancio dell’orizzonte e la stanza piombò nel nulla. Una barriera lugubre di volatili senza direzione avanzava verso di me. Il richiamo di allarme di quegli uccelli spietati cancellò lo sfrigolio della lampadina dell’abat-jour, che si spense dallo spavento. Innumerevoli ali irregolari alzarono un vento che sradicò piante e infranse vetri. Rimasi impietrito sulla poltrona di vimini, quando l’onda mi investì. Non reagii, lasciai colpirmi da quel vortice inquieto. Tutto di me tremava, muscoli e nervi, corpo e anima. Quando il muro di uccelli oltrepassò la casa, osservai l’orizzonte. L’impronta nera di quell’onda micidiale si era stampata sulla linea tra cielo e terra. Non c’era null’altro che un davanzale divelto, una finestra in mille pezzi, un abat-jour abbattuto e io immerso nel vuoto di un buio artificiale.