Evidentemente la casellante dell’A4 all’altezza della Barriera di Milano non è permeata da quell’aura frikkettona ed estatica che inebria la mia persona e quella del mio passeggero mentre entrambi, sulle note della cover fedelissima degli Yes , ci apprestiamo ad infilarci nell’ingorgo da suq delle vetture che si catapultano alla rinfusa verso (mi dicono) il match domenicale di San Siro. Fatto sta che, per colpa di un mio versamento di mezzo euro in meno sul pedaggio, la succitata casellante mi riversa contro una sequela di improperi in stretto accento meneghino da far sfigurare pure il gramelot del migliore Fo. Ma io non m’abbatto, e dopo averla opportunamente invitata a dar via il didrè, m’involo verso l’Alcatraz, carico come una molla, chè stasera “si fa il Prog”, quello vero, quello che pesca dalla migliore tradizione anglo/italica. Non a caso, dopo il primo stornelletto d’apertura, di soli 26 minuti, il mattatore Mike Portnoy ricorda a se stesso, più che a noi, che l’Italia è, a pari merito con Albione, la patria del rock progressivo.
E il mio pensiero per un attimo vola sulle note del compianto Francesco Di Giacomo.
Tra le ultime file in fondo alla sala vedo aggirarsi una figura stranamente nota, incredibilmente simile a Randy George, quell’omone dalle gote rubiconde che da anni forma la sezione ritmica, insieme a Portnoy, negli album solisti e relative bonus track di Neal Morse. Lo fermo, lo chiamo, mi sorride, gli chiedo cosa ci fa in mezzo ai comuni mortali del pubblico. Il tour manager dei Transatlantic, mi dice. Ma dai, multitasking!, esclamo io. E’ un eufemismo, risponde lui sospirando. Il prototipo del grande e grosso gigione del Prog.
Il concerto prosegue, la band è in piena forma, reduce dal mega festival Prog Nation at Sea (praticamente una Crociera da Miami alle Bahamas con una miriade di band del calibro di… Vabè, in pratica tutti i paladini dei tempi dispari). Dopo un’ora han suonato due pezzi e la gente si spella le mani. Ovviamente non c’è bisogno di soffermarsi sul pubblico prog: nerd, nerd, e ancora nerd. La generazione che un giorno (non) governerà il mondo. C’è persino quello con la maglietta (usata forse tre volte in vita sua con le maniche ancora stirate, che la maglia sgualcita sarebbe troppo figa) del tour dei Flower Kings del 2012, seguito dall’allegra famiglia al completo: moglie che sbadiglia sul divanetto cercando invano di trovare una posizione che la faccia illudere di essere comoda per almeno 3 minuti, e figlia con ciuccio in bocca che corre avanti e indietro tra i bagni e la zona fumatori (deserta, chè il progster non ha vizi, altro che straight edge).
Ed ecco perché, a parer mio, anni fa prese la decisione più dolorosa della sua vita, quella di abbandonare la propria creatura, perché semplicemente non se la spassava più coi Dream Theater come con gli altri progetti paralleli, in primis QUESTA band, quella che sto ammirando adesso, quella con cui, se gli gira (e peccato che questa sera non sia capitato), nel bel mezzo di una jam, si fa sostituire alla batteria e fa uno stage diving/swimming da antologia (no, non ve lo dico il minuto esatto, guardatevi tutto il concerto ed elevate il vostro spirito). In tutto questo, il buon Mike si fa accompagnare dalla band che lui stesso ha plasmato: i leader di due delle migliori band della rinascita del prog sinfonico, Neal Morse, e Roine Stolt, ed uno dei più sottovalutati bassisti e taurus-pedalisti del genere, Pete Trewavas. Tre dei suoi miti che diventano suoi compagni di gruppo. Questo è ciò che amo di più in assoluto nella musica: le collaborazioni. Quattro musicisti che suonano insieme da tre lustri, si ritrovano ogni tre o quattro anni, si chiudono in sala di registrazione per non più di dieci giorni (tutto vero, basta vedersi i vari dvd e filmati dei making of) e sfornano suite da mezz’ora o concept album da oltre 70 minuti.
Ciliegina sulla torta, dal vivo, è la presenza di Tad Leonard, voce degli Spock’s Beard e degli Enchant (visti a Milano di spalla ai Dream Theater, nel ‘97, nel secolo scorso), vero e proprio quinto uomo e tuttofare dalla voce cristallina, al tamburello e alle sei corde e alle tastiere, il quale riesce nel non facile ruolo di non far(mi) rimpiangere l’immenso Daniel Gildelow, a casa in malattia (pare abbia esagerato a mescolare i generi e si sia beccato il malocchio da Mike Patton. Scherzo, li amo entrambi).
Alla fine me ne torno a casa contento, con una sonora indigestione da mellotron/arp/moog/hammond e una maglia nuova di pacca dei Pain of Salvation (tour 2011), che indosserò forse tre volte ma con una spocchia degna del migliore Keith Emerson in lustrini all’Isola di Wight.
Scaletta:
Shine
Whirlwind Medley
Overture (Abridged)
Rose Colored Glasses
Evermore
Is It Really Happening?
Dancing With Eternal Glory
Whirlwind (Reprise – section)
Guitar Duet (Morse and Stolt)
We All Need Some Light
Black as the Sky
Beyond The Sun
Kaleidoscope
Encore:
All of the Above (Full Moon Rising / October Wind)
Stranger in Your Soul (Awakening The Stranger / Slide / Stranger in Your Soul)