Sabato, stazione di Verona, manca poco alle 8. Il treno si arresta, concedendo alle poche fermate qualche minuto. L’uomo davanti a me legge un quotidiano, tradisce un leggero nervosismo con gesti impazienti. Lo posa, telefona, lo riprende.
Un gruppo di giovani seduti in centro al vagone semivuoto sta andando a Roma: parlano in continuazione, eccitati, di cosa faranno. Si alzano e frugano nelle valigie, estraggono fogli, discutono. Si rialzano e li reinfilano al loro posto. Si prendono in giro, si baciano piano, passeggiano inquieti nel corridoio. Una di loro si mette smalto color vinaccia: le unghie risaltano sul tavolino chiaro, l’odore si spande. L’aria fredda del vagone mi fa venir voglia di scendere a scaldarmi le ossa sotto il sole che filtra tra le pensiline e illumina i finestrini.
Il marciapiede è sporco: resti di bottiglie di plastica si addensano accanto alle panchine. Un pannello pubblicitario, con il solito corpo di donna in costume, mi guarda grigio, asettico e fuori contesto. Due ragazzine si avvicinano alla panchina fuori dalla carrozza. Sono piccole di statura e di età, magre come solo le ragazzine di adesso riescono ad essere. Calzano nei piedi nudi sneaker basse da cui si dipartono jeans stretti che risalgono, sottolineando le ossa. Nascondono la vita sotto indumenti larghi, in un contrasto di forme. Una di loro indossa una felpa bianca col cappuccio, i capelli scuri tirati su a crocchia, lo zainetto rosso che le attraversa la schiena. L’altra, sopra una canottiera rosa, ha infilato una larga camicia a scacchi rossi e grigi, sbottonata ma avvolgente, come la sciarpa che le circonda più volte il collo. Parla, animata, il viso girato a mezzo verso l’amica: ha il naso piccolo, un viso da bambina sotto un casco corto di riccioli chiari. Le maniche della camicia le arrivano fino alle falangi. Le spuntano dai polsini solo le punte di sottili dita mobili, che tracciano segni per aria accompagnando le parole. Si alzano: il treno che arriva sul binario se le inghiottisce e le porta via verso la loro giornata.
Sale una coppia ad occupare i due sedili liberi attorno al mio tavolino: ritiro le gambe dispiaciuta, calo gli occhiali da sole e infilo le cuffiette dell’iphone, a recuperare un’apparenza di spazio privato. Ho ancora sonno, alcuni pensieri da rimuginare, una settimana intensa appena trascorsa da cui recuperare frasi importanti, da cui lasciar andare avvenimenti inutili, una giornata di scoperte davanti a me. Mi rannicchio nel maglione, giro la testa verso il finestrino, alzo il volume per coprire il rumore del treno, che riparte verso il Po.