Trattato di medicina immaginaria di Emmanuel Venet

Creato il 11 luglio 2013 da Tiziana Zita @Cletterarie

Emmanuel Venet, l’autore del Trattato di medicina immaginaria, è uno psichiatra di Lione. Il suo racconto parte dalla metà degli anni Sessanta – è nato nel 1959 – e arriva fino ai nostri giorni. Parte dal mercato di Monplaisir, dove sua madre e la comare Bonnardier si incontravano e parlavano dei loro reumatismi. Le due donne erano appassionate di malattie, soprattutto di quelle mortali, ed è ascoltando i loro racconti, in un misto di curiosità, inquietudine e incomprensione, che il giovane Venet coltiva la sua vacazione. Così, tra le “brume delle mattine lionesi”, in mezzo “alle borse della spesa strabordanti di bietole e porri, e ai racconti mai esauriti di malattie inguaribili” si intreccia il suo destino.
La novità di questo testo è che parla di medicina, ma non da un punto di vista medico. Il punto di vista, semplice e universale, è quello  che abbiamo tutti quando siamo alle prese con una malattia. Ecco la sua ricetta: cronaca, musica, letteratura, filosofia e soprattutto tanto umorismo.

In questi brevi racconti si parla di patologie comuni, o straordinarie. In ognuno c’è una malattia, ma c’è anche un tassello della vita dell’autore. Alla fine i vari tasselli vanno a ricomporre la sua biografia.
Quello che rende il Trattato godibile è che il suo approccio alla medicina e alla malattia non è ansiogeno, ma anzi dà quasi sollievo. La “medicina immaginaria” è il rapporto che ognuno di noi intrattiene con la medicina fin dall’infanzia. E’ la malattia, non come si presenta, ma come si rappresenta. Perciò cure e rimedi ufficiali si mescolano alla medicina “fai da te” che viene praticata in ogni casa. La verità scientifica si mescola alla sapienza popolare, ai pregiudizi, alle pratiche e ai tic quotidiani.
E mentre si passano in rassegna cistite, isteria, traumi cranici e infarti, miopia e ipocondria…

“Non si può avere più di un amico ipocondriaco, a costo di diventar pazzi noi stessi. Per me questo fu Bernard Simeone, poeta e traduttore, senza dubbio l’ipocondriaco più compiuto che abbia mai incontrato. Mi ha fatto migliaia di telefonate a tutte le ore del giorno e della notte, per intrattenermi sui suoi sintomi e le sue inquietudini. Sin dall’adolescenza non soffriva mai di banali mal di testa, ma sempre di tumori cerebrali”.

… ci si interroga sul senso e l’origine della malattia e dunque su quello della vita e della morte. E si scopre che, non solo conviviamo con i nostri mali, ma ci affezioniamo ad essi e li assecondiamo con cura amorevole. In fondo ci connotano meglio di ogni altra caratteristica. I nostri malanni diventano riti, piuttosto che cure, e lo sguardo di Venet è pieno di ironia, scetticismo e benevolenza.

“Quando avevo dieci anni, mia madre affidò la mia educazione musicale alle amorevoli cure della signorina Rivière che riceveva i suoi allievi in casa, in via Garet: una strada malfamata che sbucava a fianco dell’Opera, all’epoca occupata da botteguccie. Per uno nato a Montplaisir, lo spaesamento era totale. La prima volta mia madre mi accompagnò e fu un bene: sotto al palazzo della signorina Rivière c’era una creatura sublime, dalle labbra carnose e il decoltè generoso, sotto al mantello di pelliccia. Stavo per innamorarmene quando sentii che c’era un ostacolo. Impercettibilmente mia madre si era tesa, non rispose al saluto della ragazza e la incrociò con le mascelle serrate e lo sguardo vago”.

Il testo affronta con grande leggerezza mali antichi quando il mondo e ci permette di accettarli come parte della vita. Perciò il Trattato di medicina immaginaria non invecchia e ha tutte i requisiti per diventare un classico. Perché, malgrado i grandi progressi della scienza, lo scenario di certe malattie resta sempre lo stesso. Pensiamo ad esempio al cancro “che gira una clessidra davanti al malato”, Venet lo tratta con tanta delicatezza, che questo male terribile e spaventoso, sembra quasi ammansito.
Il Trattato è diviso in quattro parti. La prima è dedicata alle malattie e ne vengono presentate 33. Quindi si passa ai disordini psichici e si raccontano 10 casi di gente che ha problemi con le onde: si tratta di onde malefiche che li spingono a fare cose che non vorrebbero. Come “l’onda squisita”:

“Alla fine del maggio 1964, Josiane J., quarantadue anni, patì tutte le pene dell’inferno nel respingere le avances del suo dentista che le aveva appena otturato una carie. Un profondo turbamento la colse fino a sera. Dovette prendere un sonnifero per addormentarsi e, alle due del mattino, fu strappata dal sonno da un inspiegabile orgasmo. L’indomani mattina, mentre faceva colazione, si sentì leccare il clitoride ed ebbe bisogno di un notevole dispendio d’energia per non godere. Telefonò al suo dentista per intimargli di smetterla con i suoi intrallazzi e non apprezzò le oziose risposte con le quali lui si defilò.
La notte successiva, il piacere la svegliò a mezzanotte e si sentì leccare fino all’alba. Molto arrabbiata, fece scivolare un foglio sotto il tergicristallo dell’approfittatore, sul quale aveva scritto semplicemente: “Bastardo!” col pennarello rosso. Da quel momento, gli assalti divennero permanenti”.

Dalla nevrosi pianistica dell’autore, autodiagnosticata e inguaribile, deriva un delizioso capitolo sulla musica in cui si esprime tutto il suo amore e odio per il pianoforte. Infine, nell’ultima parte, ci sono i rimedi, ma anche questi sono singolari. Primo fra tutti “il disprezzo”.
Quando il piccolo Venet e la fatidica madre si recavano dal dottor Worms, questo “palpava, picchiettava e auscultava senza dire niente”, completamente immerso nella visita, e poi proferiva il suo responso:

Cortese ma perentorio il dottor Worms consigliava di trattare la cosa “con disprezzo” e così ci portavamo via questa formula sulla scala di pietra…”

Non è straordinario un medico che consiglia di non badare ai sintomi e disprezzarli?
E ora passiamo al piacere del testo. In questo libro la scrittura è importante perché l’autore è un amante delle parole.

“Esistono tre forme cliniche di tubercolosi: quella di Roland Barthes, astratta e indolore, che introduce al dolce esilio del sanatorio; quella di Dostoïevski, che arrossa le guance, rende l’occhio brillante e gli amori urgenti; e quella di Kafka, mortale e tormentosa, che gli fece urlare al suo ultimo medico: “Se non mi uccide, lei è un assassino!” In genere si ricorda soprattutto la prima, malattia di media altitudine, propizia alla pulsione creatrice: la certosa di Valdemosa dove soggiornò Chopin -  le sottili contrarietà che ne oscurano l’orizzonte, il piccolo pianoforte verticale che tarda ad arrivare, il signor Pleyel che cavilla sui diritti d’autore – e le stazioni alpestri dove legioni di intellettuali passano le loro giornate su una sdraio, un plaid sulle gambe, occupati giusto a contemplare le montagne mentre maturano l’opera futura.

Pochi miti deludono quanto questo. Ci si immagina un male elegante, laddove la tisiologia non raccoglie che pezzenti che trascinano la loro sventura ai margini della società”.

C’è chi dice che uno scrittore è un grande sofferente e anche il suo terapeuta. Se è così, questo libro è la cura. Un’altra cosa: Venet sostiene che bisogna restituire alla medicina quella parte di poesia che la medicina non vuole assumersi.
Missione compiuta!

PS
Se a questo punto vi è venuto voglia di leggerlo, devo confessare che il Trattato di medicina immaginaria in Italia non esiste perché non è mai stato pubblicato. Io l’ho tradotto. Fatevi avanti editori!


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