Tre.

Da Darioparrinello
Riccardo era quel tipo di rompiballe che spunta da sotto a un tombino quando meno te lo aspetti e quando meno vorresti avere qualcuno intorno. Quel tipo di persona che ti ritrovi accanto e non capisci da dove sia venuta fuori, non so se mi spiego. Ma probabilmente ognuno di noi incontra almeno un Riccardo, nella sua vita, un ninja della molestia silenzioso e invisibile fino al momento in cui non decide di salutarti e di raccontarti qualcosa.
Per dirla tutta non sarebbe stato neanche eccessivamente fastidioso se gli fosse riuscito di limitarsi ai racconti perché a volte, bisognava riconoscerglielo, tirava fuori dal cappello certi aneddoti che ti facevano contorcere le budella dalle risate. Purtroppo la sua tendenza a enfatizzare, a gonfiare ogni racconto senza che ce ne fosse apparente motivo, unitamente a una logorrea che, a sua parziale discolpa (avendo avuto in più di una occasione la ventura di passare una mezz’ora in compagnia di sua madre) ho sempre ritenuto essere congenita, impediva a chiunque di sopportarlo per più di una decina di minuti. 
Comunque sia, mi era spuntato dietro da vattelappesca dove anche questa volta. Questa sua abilità mi ricordava certi personaggi strani della mia adolescenza passata a sud, molto a sud, sulla punta dello stivale, affacciato su quella ferita di mare che separa la Sicilia dal resto del continente. Da quelle parti, dovete sapere, è prassi quotidiana che un diverbio da nulla si trasformi in quella che gli indigeni definiscono con un orgoglio tanto malcelato quanto fuori luogo, una “sciarra”. In realtà, nonostante si cerchi di far passare questa tradizione folcloristica come una virile contrapposizione di corpi, nella stragrande maggioranza dei casi questa risulta essere più che altro una sorta di balletto in cui i due contendenti cercano di gonfiare le loro piume il più possibile e, sebbene a uno sguardo distratto possa venire scambiata per una rissa, tecnicamente non lo è. Somiglia più a uno scambio di insulti, a un minacciarsi vicendevolmente annunciando chissà quali ritorsioni con uno scambio di spinte e ceffoni, aggiunto in coda più per creare un minimo di scalpore che non per arrecare un effettivo danno fisico all’avversario. Ma divago.
Il punto è che in questo bizzarro rituale capita sempre che all’inizio i due contendenti siano soli, semmai accompagnati da uno o due dei membri più fidati della loro corte dei miracoli, ma che in un qualche modo oscuro, dopo uno o due minuti dal primo scambio di stoccate verbali, ecco che si materializza apparentemente dal nulla una marmaglia vociante di individui che prende le parti dell’uno e dell’altro. E non importa quanto la sciarra si svolga in un posto deserto, nè c’è da pensare che la collocazione in tarda nottata possa renderla un fatto privato, quasi intimo. Che siano le quattro di mattina o le due di pomeriggio, che ci si trovi in pieno centro o accanto alla fiumara più dimenticata da Dio, inevitabilmente una massa di gente sbucherà dal nulla scivolando (ho sempre supposto) fuori da un tombino o calandosi là in mezzo da sopra a un lampione, tifando per l’uno o per l’altro e magari finendo per menare davvero le mani (loro sì, altro che ceffoni) e creando un effetto domino che riveste di nuova dignità la sciarra trasformandola in una rissa vera e propria.
Bene, Riccardo era così: saltava fuori dal nulla ogni volta e invece di mettersi a schiaffeggiarti fisicamente, si impegnava per farlo moralmente raccontandoti una qualche idiozia senza capo né coda, per poi sparire di nuovo dopo un saluto affrettato millantando chissà quali impegni tutt'altro che galanti con chissà quale sconosciuta. A suo dire viveva una vita piena di sesso e di imprevisti, un continuo via vai di posti, volti, corpi, ma in realtà se anche lo faceva era il suo unico spazio di discrezione, visto che nessuno tra gli amici aveva mai avuto la fortuna di condividere con lui quei momenti in cui, evidentemente, diventava una persona interessante.

- Che cazzo ci fai sdraiato in mezzo a un prato a farti mangiare dalle mosche? 
Era in forma, lo si capiva già dall’incipit. Non era mai stato un granchè di intellettuale e non si poteva dire che il suo vocabolario fosse estremamente ampio o particolarmente raffinato, ma il tono con cui diceva le cose aveva un suo certo impatto. Nulla che avessi voglia di sentire in quel momento, ma lo aveva.
-Le mosche sono state il problema meno fastidioso fino ad ora e in effetti sono state umiliate nella classifica dei fastidi dalle zanzare. Prima di vederti, ovviamente. Che ci fai da queste parti?
Lui finse di non cogliere o, più probabilmente, non lo fece e basta.
-Niente di che, ero in giro con qualche birra nello zaino, un paio di canne e volevo vedere se trovavo qualcosa da fare stasera. Qui c’è sempre un sacco di figa, appena inizia a fare caldo le trovi tutte con le tette per aria svaccate sul prato.
Figa, tette, birra, fumo. Ero preparato all’andazzo che avrebbe preso la conversazione, anche se non avevo alcuna voglia di continuarla.
-Mi sa che ti è andata male, oggi pare sia è giornata di famiglie. 
Provavo a smorzare in un colpo solo i suoi entusiasmi e il subbuglio di ormoni che aveva in corpo ma sapevo già che era una battaglia persa prima ancora di iniziare a combatterla.
-Giornata di famiglie? Beh, le donne stanno sempre a lamentarsi dei loro uomini, non c’è niente di meglio di una mamma sola al parco per…
Gli feci un cenno per zittirlo mentre lui tirava fuori una bottiglia di birra e faceva leva poggiando l’accendino tra un dito e il tappo. Era già visibilmente alticcio ma continuava a bere e sotto a quel sole sudava come se stesse per liquefarsi. 
-Guarda là. – indicavo con il dito – Là, quel padre con il figlio. Là, in mezzo al campo da pallacanestro. Li vedi?
Lui distolse lo sguardo per un istante, annuì e prese a rimirare il pezzo di fumo che aveva cavato da una tasca dopo che si era seduto su un angolo del telo. Tacque per qualche secondo, poi si decise a rispondere.
-Un tizio che gioca col figlio, embè?
-Li sto guardando da un pezzo. Cristo, guardali e dimmi se non sono fantastici.
Lo erano per davvero. Certamente non erano il tipo di fantastico che Riccardo si sarebbe aspettato, in fondo non avevano natiche particolarmente appetibili né seni di alcun tipo, ma per me lo erano eccome. Il bambino non arrivava al metro di altezza neanche a farlo salire su un paio di libri e stringeva quella palla arancione come se fosse il tesoro più importante che potesse desiderare. Il padre, un omone alto alto e più spesso di uno qualsiasi dei tronchi degli alberi che ci cirdondavano, era un fucile spalmato di burro e miele. Talmente grosso da far paura, con certe manone che facevano sparire la palla ogni volta che il figlio gliela passava, ma lieve e delicato in ogni mossa, in ogni parola, in ogni gesto. Chissà chi era, quando era lontano dal figlio. Chissà che lavoro faceva. Magari era un avvocato, magari un medico, magari un agricoltore o un fabbro. E chissà dov’era la madre del bambino e perché non era insieme a loro a giocare in quella delizia di inizio estate. 
-Ci pensi mai ad avere dei figli? – dissi – A come saresti se ne avessi uno, a come cambieresti?
Riccardo mi guardò e soffocò una risata.
-Sei fuori, senti me. Sei completamente fuori di testa. Se c’è una cosa che non voglio è avere dei figli. La parte interessante è quella che viene prima, ci hai mai fatto caso? E poi chi dovrei farlo un figlio, pur volendo? Abbiamo trentacinque anni, ormai sulla piazza sono rimaste solo le bagasce o gli scarti che nessuno si è voluto prendere, ma ti pare che…
Continuò con lo sproloquio ma non lo ascoltavo più, né gli rivolsi ancora uno sguardo o una parola. Guardavo padre e figlio, guardavo la palla che rimbalzava, ascoltavo parole di incoraggiamento, risate, passi incerti.
E in mezzo a quel misto di serenità e malinconia sentii Riccardo chiamarmi una, due volte, forse tre e poi alzarsi e mandarmi a fare in culo blaterando qualcosa su non si sa che figa che mi perdevo e che lui si sarebbe fatto, una con due tette così e un culo che parlava con Dio.
Non lo rividi più, dopo quella volta, ma non ne fui dispiaciuto.


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