Blutch pubblica il suo primo fumetto, una parodia di Tintin, sulle pagine di «Fluide Glacial». L’aveva spedita per un concorso, in premio c’era la possibilità di continuare a collaborare con la rivista. Subito, anche su quelle pagine devote alla comicità violenta e diretta, trova la sua libertà, è con quella che d’ora in poi si dovrà confrontare.
Autore senza serie e senza eroe, mosso da un’oscura ma inequivocabile coerenza, procede per svolte, negazioni e paradossi. Quando, Grand Prix ad Angoulême, fu il suo turno di progettare una mostra che lo celebrasse, non espose neanche una tavola pubblicata, neanche uno dei suoi disegni conosciuti, solo cose fatte per quei muri. Blutch lavora in base all’esigenza del momento, e le sue sono storie senza tempo.
I paragrafi che seguono – e che si limitano a suggerire tre spunti di lettura per chi si avvicina ai fumetti di Blutch – peccano senza dubbio di frammentarietà e di penetrazione analitica: senza seguire un ordine particolare, ho accennato al tema del sogno, del racconto di sé e dell’erotismo. A questo autore alieno da qualsiasi intellettualismo, anche quando procede per accumulo di citazioni – ecco già un primo paradosso –, è opportuno avvicinarsi liberi dall’illusione di saper decifrare.
La storia di Blutch, vale a dire della sua arte, la si può rappresentare come una danza e come una lotta. Danza per la concentrazione costante, le dedizione, lo stato di grazia, la leggerezza. Eppure anche lotta senza tregua contro il proprio virtuosismo, per mettere in discussione ogni risultato acquisito, per scaricare una violenza senza un’origine e un centro definibili, ma non per questo meno devastante.
1. Sogni che si possono disegnare
«Je me fais l’effet d’essayer de vous raconter un rêve et de ne pas y réussir.»
Ci sono sogni più nitidi di altri, retti da un’ineluttabile, incomprensibile coerenza; e ci sono storie più confuse di altre, che per comodità sono chiamate “oniriche”.
Blutch è un autore-sognatore che sa disegnare storie-sogno. Il perché non ve lo so dire, ma immagino che c’entri con l’abilità di perdersi e con la capacità di mantenere alto il livello dell’attenzione, due cose che, anche se forse non sembra, sono legate.
La citazione in francese, che fa cenno al tentativo fallito di raccontare un sogno, è un commento di Blutch al suo Vitesse moderne, libro enigmatico e chiarissimo uscito per la prima volta nel 2002 e inedito in Italia. È la storia di una notte interminabile e avventurosa, una catena di paure, ossessioni e feticismi che – insieme o singolarmente – danno sempre l’impressione di portare da qualche parte, in un posto importante, sulla soglia di un segreto.
A confermare la consapevolezza dell’onirismo di Blutch, in copertina – ovvero nel luogo che avvolge e che inizia il racconto – ci sono le due protagoniste, la ballerina e la scrittrice, addormentate sul sedile posteriore di un’automobile.
In Mitchum, una serie d’autore in cinque albi poi raccolti in volume, Blutch ha delimitato un suo spazio di libertà creativa pressoché totale. Attorno al tema della relazione artista-modella – che dà coesione all’insieme di forme e di stili – l’autore sperimenta il racconto intimista, la deriva onirica, il fiabesco, la variazione sul genere, esplodendo il segno e la messa in pagina, fino a disegnare una sequenza di danza sopra le tavole di una storia lasciata incompiuta.
Ho scritto “sperimenta” ma non sono sicuro che sia la parola giusta. Non credo che Mitchum sia il laboratorio per lavori più controllati e “finiti”, non più di quanto qualunque opera può essere laboratorio per le altre che verranno. Mitchum, nella sua non evitata incompiutezza, crea realtà compiute. «Je me fais l’effet d’essayer de vous raconter un rêve et de ne pas y réussir.» “Non riuscirci” è il solo modo di raccontare un sogno
2. Il bambino di Strasburgo e il re di Parigi
«Etre présent par tout, mais visible nulle part.»
Blutch nasce Christian Hinker a Strasburgo il 27 dicembre 1967, il fatto che la sua storia personale non sia segnata da traumi o improvvisi punti di svolta lascia una singolare libertà d’interpretazione di fronte all’insieme delle sua opera.
La frase stavolta viene da Flaubert, ma la riportiamo come la cita Blutch in un’intervista, lievemente rimaneggiata e fatta propria. Il fatto è che, ostentando estraneità alla pratica del racconto di sé, Blutch ne realizza negli anni 90 due vertici assoluti: Le Petit Christian, un’autobiografia simulata pubblicata nel 1998 da L’Association, e Blotch, un’autofiction inversa serializzata su «Fluide Glacial» e poi raccolta in due volumi.
Nel primo caso abbiamo un bambino di nome Christian che cresce a Strasburgo, con la sua passione per i fumetti e per il disegno, l’impressione di verità infusa in ogni segno e in ogni parola, la quasi provocatoria somiglianza fisica tra personaggio autore e la collocazione temporale inequivocabilmente riconducibile all’infanzia dell’autore non lascerebbero dubbi.
La serie Blotch racconta invece – con sarcasmo feroce e, specialmente nelle ultime storie, una nota di cupa malinconia – le disavventure di un discutibile vignettista nella Parigi degli anni 30.
Il solo caso in cui Blutch si è messo davvero direttamente in scena, ma senza mostrarsi troppo, è il diario di viaggio Lettre americaine: primo libro per Cornelius e primo lavoro del tutto slegato dall’intenzione umoristica. Giura che è un’esperienza che non ripeterà più.
3. L’ultimo dei misteri
«Je ne peux te toucher, je te peins…»
Il jazz, la danza, l’onirismo… temi chiave e ricorrenti quando si parla di Blutch, sull’eros invece ho trovato poco.
La frase citata chiude un racconto presente nella raccolta di Mitchum, la dice il diavolo di fronte a un cavalletto e la ascolta una fanciulla senza mani, così pura da non poter essere toccata: «Non posso toccarti, allora ti dipingo». Di fronte a una metafora tanto limpida dell’atto creativo – della necessità e del desiderio che lo muove – nessuno potrà più accusare Blutch di essere criptico. Così limpida, questa metafora, che rischia di deviare il discorso in un canale troppo stretto e dagli argini troppo alti, e allora meglio, considerato che mancano alla fine poche righe, proseguire frammentari e divaganti.
Se disegnare e raccontare è essenzialmente una questione di desiderio e se il desiderio passa per i sensi, allora la parola che ci serve più d’ogni altra è “sensualità”. La sensualità Blutch la insegue nel suo lavoro e negli artisti che ama, è la forma del suo operare, carica il segno di desiderio e lo scarica – ma mai del tutto, mai davvero – nel movimento della mano e nella pulsazione dell’occhio che la segue. Sensuale è prima di tutto la linea, che nel tempo è diventata più rapida, semplice, come un amante impara l’economia dei gesti. Sensuale il colore, febbrile e tattile, con i toni caldi e freddi che si intrecciano quasi a fondersi intorno e dentro le figure. Sensuali la danza e la lotta, le scimmie, le corde, la resina e le rocce; e su ognuna di queste parole si potrebbe aprire un lungo discorso.
Davanti a me c’è una pila di volumi, ci sono racconti e tratteggi nei quali perdersi, simboli da interpretare, percorsi da seguire, influenze da identificare, tecniche da studiare… una complessità giustificata eppure fuorviante, perché all’essenza dell’arte di Blutch bisogna arrivarci in un altro modo. Quale? Non lo so dire, e se sapessi dirlo non lo direi lo stesso. Però alla fine di Vitesse Moderne – libro che ora l’autore giudica verboso – c’è un monologo che proclama la fine dei grandi misteri, il disvelamento di tutto, ma
«ci rimane ancora un mistero… l’ultimo dei misteri… ed è la nudità… la nudità degli uomini e delle donne».
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