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Tre uomini, un cane, tre libri: “Tre uomini in Po (meglio tacer del cane)” letto da una pignola.

Creato il 16 ottobre 2012 da Camphora @StarbooksIt

Sintonizzo la radio. Voglio cominciare bene la giornata. Questo nnnno. Che è sta musica truzza? Pussa via. Ah, eh, oh Radio Giramenti. Finalmente si ragiona! Ora state in silenzio ‘che voglio sentire!

Sarò sincera, fino a ieri non conoscevo Beppe Gualazzini, non siamo nemmeno parenti e questo potrebbe rendere inspiegabile il mio attaccamento a Tre uomini in Po; il colpo di fulmine, se così vogliamo chiamarlo, è certamente dovuto al fatto che sul Po ci sono nata e cresciuta. E non dico accanto, dico “sul Po”, ché a Goro il fiume quasi batte in altezza il campanile. Poi c’è l’argine, rinforzato più volte perché il Po prende e il Po dà, ma, dovendo scegliere, preferisce mangiare tutto. Oltre l’argine c’è il paese, piccino. Ci conosciamo tutti, conosciamo il Po e il Po conosce noi. Be’, sì, dire di conoscerlo forse è esagerato, a Goro si conosce l’acqua che si ha di fronte, il fiume è lungo, da noi arriva la coda.

 

Insomma, mettetela come vi pare: quando m’imbatto in un romanzo ambientato sul Po, io già mi esalto, lo faccio mio, mi dico che lo devo proprio leggere. E qui arriviamo al nocciolo della faccenda: il libro che mi accingo a recensire è volutamente ispirato a Tre uomini in barca di Jerome.

Già letto. Ma Tre uomini in barca ha il suo seguito in Tre uomini a zonzo. Letto pure quello. Tutto questo iter burocratico – che mi sono autoinflitta – solo per gustarmi il lavoro di Beppe Gualazzini. Sì, dai, meriterei almeno che qualcuno mi pagasse uno spritz!

 

Sono passata attraverso le edizioni BUR dei libri di Jerome – entrambe con traduzione di Alberto Tedeschi –, le loro introduzioni noiosette e le impraticabili quarte di copertina.

In Tre uomini in barca Mario Cancogni raccontava la storia della pubblicazione – sbadiglio – e la quarta prevedeva Nicola Lagioia che cianciava di ozio e sguardi innocenti – altro sbadiglio. In Tre uomini a zonzo Giorgio Manganelli si lasciava prendere dall’entusiasmo e partiva in derapata verso improbabili parentele tra Jerome e il lettore, tra i suoi parenti e i nostri, tra loro e noi. Sì, insomma, come a Goro, ma lì la parentela è reale. In quarta c’era Diego De Silva a parlarci di un libro – che poteva pure essere quello stabilito dalla copertina – scritto talmente bene che «non c’è cinema che tenga». E il dubbio che De Silva non abbia letto di quei tre uomini – in barca, a zonzo o sul Po – è lecito. Di quarte di copertina intercambiabili è pieno il mondo, e se ne può sempre fare a meno.

 

Decisa a mettere a frutto i due libercoli precedenti, sono passata alla fase finale di questo mio personale accanimento librario: si è fatta l’ora di dirvi di Tre uomini in Po di Beppe Gualazzini.

Edizione dell’Istituto Geografico De Agostini del 1985, scovata a un mercatino dell’usato in quel di Ferrara, a pochi passi dalla Biblioteca Ariostea. Lì dove gli Estensi calcavano le vie fangose, calcavano la mano sulle tasse e calcavano le acque del Po: a spasso col bucintoro, o magari in guerra, per darle e farsele dare dalla Serenissima. Nel fiume ci si lavava, si pigliava l’acqua da bere, grazie a lui s’irrigavano i campi, a causa sua si annegava durante le piene. Viene da pensare che forse io non abbia scovato questo libro per caso, tendo a credere sia stato lui a trovare me. Forse gli serviva una tizia che ha respirato aria di golena, una che al Po ci tiene e ne è innamorata. Ecco, sì, una tipa del genere che parlasse di lui.

 

Ok, eccomi qui, sono la persona giusta: vediamo se riesco a raccontarvi cosa c’è in Tre uomini in Po (meglio tacer del cane) di Beppe Gualazzini.
Il volume è abbellito dai disegni di Nani Tedeschi e l’introduzione la fa lo stesso autore, forse l’unico ad avere le carte in regola per spiegarci come accidenti gli sia venuto in mente di scopiazzare, non solo l’idea di partenza, ma anche il layout dei testi di Jerome. Ebbene, si sappia, qui non si tratta di plagio, bensì di tributo. E la cosa ci sta tutta, perché la gita in barca, il cane e le risate sono magari prese da quel classico classicone che ci tiene compagnia dalla fine dell’800, ma il Po non è il Tamigi e i personaggi del libro non sono gli elegantoni di Jerome.

 

«Io spero che il valore della morale che il racconto impartisce sia pieno di godimento per tutti quanti. Ma se così non fosse, ebbene, le strade sopra gli argini del Po sono lunghe e dritte. Si fa presto a dirsi ciao e a prendere direzioni opposte» (pagina 9). Questo è lo spirito del romanzo e, certamente, la filosofia con cui Gualazzini si è messo di buzzo buono per scriverlo. Lì dentro c’è il Po e l’assurda intenzione di raggiungere Venezia con una zattera – l’Inaffondabile – in compagnia di due amici – più matti di lui – e di un cane. Un cagnaccio. Se fai un paragone tra Fulmine e Montmorency, il cagnetto di Jerome sembra un lord.

 

E poi si ride, si ride e s’imparano cose nuove, si gustano curiosità, si ritrovano i personaggi del fiume. Via via fino al delta, per poi avventurarsi nella laguna di Chioggia. Durante il viaggio ci si imbatte in tramonti da urlo, in ricordi storici, in descrizioni di campanili storti – quello di Ficarolo è storto da sempre, da molto prima del terremoto del maggio scorso –, un gradito omaggio a Isabella d’Este Gonzaga – di tanti chili e tanta cultura, un giorno le assomiglierò nel peso – , racconti d’amori sfigati, grandi bevute…

 

Mi dicevo che sì, Jerome mi aveva fatta ridere, ma io col Tamigi non ho confidenza e, a conti fatti, sul Po con Gualazzini ci ho navigato meglio. Abbiamo beccato correnti tortuose, zanzare, acqua a catinelle, sole da spaccare il cranio. E mi è piaciuto tutto, forse perché amo il fiume. Non saprei dirvi se questo libro vi piacerà quanto è piaciuto a me, è una domanda che mi sono fatta spesso nel corso di queste 190 pagine. Voi, forse, potreste trovarla un’avventura piuttosto provinciale, poco elegante e piuttosto terra terra, nonostante la tanta acqua attorno e il tanto vino ingurgitato dai protagonisti. Sono però propensa a credere che, se solo farete come gli Unni, riuscirete a ritrovarvi, a sentirvi a casa. Per loro Eridano era una parola difficile, i romani, quando decidevano d’appioppare un nome, ci andavano giù pesanti. Così gli Unni l’hanno chiamato Po, indicando semplicemente un grande fiume. Più semplice di così non si poteva, a quel punto era diventato un tantino loro. Magari potrebbe diventare pure vostro, se lascerete che il fiume si racconti e che Gualazzini ve lo racconti. Alla sua maniera, alla nostra, alla maniera di chi il Po lo ama di un amore raramente ricambiato. Triste e bizzoso, tenero e segreto. Il grande amore.

Gaia Conventi



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