Accolgo volentieri l'iniziativa di Ornella Spagnulo di ricordare una scrittrice come Elsa Morante, che mi ha sempre attratto e respinto nello stesso tempo. Il suo nome, Elsa, mi piace particolarmente: indica la parte della spada impugnata dai guerrieri, ma è dolce e veloce nello stesso tempo, molto femminile.
Il titolo della sua opera più nota (almeno, quella che a me risuona maggiormente), L’isola di Arturo, mi ha sempre evocato suggestioni di luoghi lontani e misteriosi, in cui si verificano eventi straordinari, al riparo dagli sguardi indiscreti degli individui comuni, come di solito capita nelle isole. In letteratura sono sempre le isole che ospitano tesori nascosti, templi oscuri o sedi particolarmente potenti di divinità senza freno. Leggendone la trama, scopro che si tratta di un’isola reale, nostrana, che non si allontana molto dall’idea un po’ fantasy-avventurosa che mi sono fatta di questi luoghi geografici: Procida. La zona è vicina all’area cumana, dove un tempo si favoleggiava avesse il suo antro la misteriosa Sibilla Cumana e dove qualche studioso collocò una porta degli Inferi. In ogni caso, qualcosa dell’atmosfera densa dell’isola passa e filtra nelle persone che la popolano.
Arturo Gerace nasce e vive tutta la sua vita sull’isola, fantasticando nella sua infanzia e adolescenza sul padre, mitizzandolo in un eroe, essendo privo di madre, scomparsa al momento della nascita. La vita del ragazzo potrebbe scorrere così, tra scenario naturale e fantasticherie, ma irrompe una donna che non è nemmeno sua, a sconvolgergli qualunque tipo di equilibrio. Il padre si risposa con Nunziata, ignaro di essersi guadagnato un rivale acerrimo per il suo cuore nello stesso figlio.
Si sviluppa un rapporto logorante per entrambi, e anche per i nervi del lettore. L’amore qui è respinto, non voluto, cercato e poi disprezzato. Sembra portare fuori il peggio dell’anima di colui che ama, e una sorta di ottusità che lo porta a isolarsi dal comprendere davvero l’oggetto dell’amore. Emerge un acuto sentimento di incomprensione, anche per le proprie reazioni e i propri sentimenti. Quando questa raggiunge il picco, l’abbandono sembra l’unica soluzione possibile, tagliando i ponti con la Madre Natura, l’isola, che aveva svolto la funzione di nutrice al posto di quella umana, scomparsa subito dalla scena.
Non è un libro che lascia indifferenti; qualche corda potrà risuonare un po’ troppo forte (com’è capitato a me) per cui sarà necessario accantonare la lettura qualche tempo, per lasciarla decantare e poi riprendere, per chiudere un cerchio doloroso ed essenziale.