Trentin e i licenziamenti pubblici

Da Brunougolini


Sul tema dei lavoratori pubblici colpevoli di un reato come quello di timbrare cartellini d’ingresso al lavoro per poi disertare il lavoro, si è sollevata una grande polemica. Con accuse rivolte ai sindacati, non solo da parte della maggioranza governativa, ma ben presenti anche nell’opinione pubblica, ad esempio nei social network. La colpa del sindacati sarebbe quella di aver sempre ostacolato il ricorso al licenziamento nei confronti di lavoratori pubblici colpevoli.
E’ probabile che nelle diverse realtà sindacali (formate non solo dalle tre grandi confederazioni ma da una miriade di soggetti) ci siano state complicità e coperture di atteggiamenti insostenibili. Atteggiamenti, come il falso timbro del cartellino o il ricorso ad assenteismi irragionevoli, che finiscono con il colpire non solo l’efficienza dei servizi pubblici, ma il lavoro dei tanti “servitori dello Stato” che compiono ogni giorno il proprio dovere con dedizione e spirito di sacrificio. Senza dimenticare che l’analisi dovrebbe tenere conto di mansioni lavorative ben diverse: un conto sono i vigili del fuoco, un conto sono gli impiegati delle agenzie delle entrate, o i cosiddetti “ministeriali”.

Non è comunque vero che il sindacato, sia pure a fatica, non si sia mai posto il problema. Era il lontano ottobre 1987 quando sulla prima pagina del “Corriere della Sera” appariva un’intervista, a firma Marco Cianca, a Bruno Trentin, segretario della Cgil, sotto il titolo “Basta con gli statali intoccabili. Se lo meritano licenziamoli pure”. Mentre su “l’Unita” compariva una mia intervista allo stesso Trentin sotto il titolo: “L’impiego pubblico non è un vitalizio”. E nel testo alla domanda “Vuol dire rendere possibile anche il ricorso ai licenziamenti?” Trentin rispondeva: “in determinate circostanze si”.
Sono trascorsi quasi trenta anni è il tema ritorna come se non fosse successo nulla. Come mai? I sindacati, a dire il vero, hanno, insieme a studiosi di alto livello come Massimo d’Antona, cercato di introdurre quella che chiamarono la “privatizzazione del rapporto di lavoro nel sistema pubblico”. Una riforma che già Trentin aveva anticipato nell’intervista del 1987 all’Unità. Essa avrebbe dovuto introdurre nel corpaccione pubblico, al posto delle clientele, delle leggine ad personam, un sistema di contrattazione anche decentrata. Costruita con l’impegno di ministri come Tiziano Treu e Franco Bassanini. Con norme che prevedevano anche il ricorso ai licenziamenti, come quelle presenti nel settore privato, per metalmeccanici, chimici, edili, tessili, commessi…
La “privatizzazione” però non è stata adeguatamente sviluppata, anzi è stata svuotata dai vari governi di centrodestra e poi bloccata col blocco che perdura dei contratti. Eppure un assetto moderno come quello che si pensava di attuare (assegnando un ruolo preciso, contrattuale, alla rappresentanza sindacale e al ”dirigente”) poteva favorire il controllo e la condanna per forme insostenibili di assenteismo o addirittura configuranti un reato.
Ora si riscoprono certe magagne della macchina pubblica e si annuncia pomposamente il ricorso al licenziamento in 48 ore. La stessa cosa che aveva fatto il ministro Renato Brunetta nel precedente governo di centrodestra. Senza ottenere risultati. Perché questo è il punto: ottenere risultati. E perché allora gridare allo scandalo se Susanna Camusso sostiene che invece di annunciare manovre lampo non si indaga sul fatto che le norme esistenti non vengono applicate? Perché non si applicano quelle riforme care a D’Antona, Treu, Bassanini, reintroducendo la contrattazione (e non bloccandola) cercando di far assomigliare il settore pubblico a un’immensa impresa moderna?