Succede che un giorno rimango a parlare per ore con una persona di sua figlia, uno scricciolo con delle particolari esigenze che ricordano molto quelle della mia me stessa bambina. La piccina rifiuta il cibo, probabile chiusura col mondo esterno di cui anche la madre fa parte. Il rapporto è difficile, la bimba ha quattro anni e sentenzia che lei mangia quando vuole. Possibilmente fuori casa e non in presenza della mamma. La madre è una ragazza splendida che soffre come un cane, che ama follemente questa piccola creatura risoluta, ma che soffoca involontariamente con questo amore disperato, che al momento pare rifiutare. La necessità di essere sempre presente, perché una brava madre deve farlo, la sta consumando, nel corpo e nello spirito.
Alla fine della conversazione mi guardo Triangle di Christopher Smith, ignara della trama. Era nel calderone horrorifico e l’ho estratto a caso. La protagonista di questo film, che si sviluppa sui paradossi temporali, è Jess, una donna che decide di farsi un giro in barca insieme a un gruppo di amici, perché è sabato e di sabato ci si gode il relax. Jess però è anche una madre. Madre di un bambino autistico.
“Perché non ha portato con sé il figlio?” domanda Victor, un membro del gruppo, a Greg, l’amico che pare conoscere profondamente Jess.
“È a scuola.”
“Ma è sabato!”
“Lui va in una scuola speciale…”
Victor disapprova, Greg giustifica. E Jess sembra perduta, distante, stanca.
Rimango pietrificata dalla coincidenza. Il tema trattato, anche se raccontato in chiave horror-fantascientifica, mi catapulta alla conversazione da poco terminata e mi rendo conto che probabilmente non ho detto qualcosa di importante a questa persona. Non le ho detto che il senso di colpa si è accomodato in lei e se la sta mangiando viva. Il concetto antico, oltre che fasullo, vuole le madri come divinità perfette e sempre pronte a fare la cosa giusta, a causa di quel falso mito dell’istinto materno. Il legame che si crea tra la madre e il feto che cresce nella pancia è un legame delicatissimo e la sua qualità dipende dallo stato emotivo della madre prima del concepimento, durante la gestazione e dall’ambiente circostante. Una madre serena è una madre accolta, amata, supportata. E non credo ci sia bisogno di dire che non dipende dal numero di individui che le gravitano attorno, ma dalla qualità di attenzione e comprensione che le vengono rivolti. Tuttavia, le buone madri possono essere stanche, abbattute, arrabbiate. Possono odiare quella creatura che non conoscono ma che allo stesso tempo conoscono meglio di chiunque altro. Possono volerla diversa da quello che è, soprattutto se la creatura in questione ha delle difficoltà.
Come il figlio di Jess, che lascia tutti i giochi in giro, che colora per ore con gli acquerelli e poi non riesce a oltrepassare le piastrelle perché ha paura delle macchie di colore sul pavimento. Il bambino non parla, non si capisce cosa vuole, urla e piange quando è spaventato o non vuole fare una cosa. La frustrazione è enorme. E allora Jess vorrebbe smetterla di desiderare un figlio normale, vorrebbe essere lei a cambiare. Vorrebbe smettere di essere arrabbiata, di ripetere le stesse pedanti abitudini ogni santo giorno. Vorrebbe che quel ragazzo che si siede al bancone del bar la portasse in gita in barca. Per distrarsi, staccare la spina da quel dolore che non l’abbandona mai. Poi accade qualcosa dalla quale non è possibile tornare indietro. O forse sì?
Il guaio del senso di colpa è che ti impone di vivere nel passato, con l’illusoria speranza di poter cambiare gli errori commessi, modificare gli eventi e avere un’altra possibilità. Ma è, appunto, illusoria.
L’immagine dei corpi degli albatros sono il simbolo di un passato che ritorna in continuazione, per quanto si faccia di tutto per modificare anche un microscopico tassello. La prigione di Jess è metafisica, ma è rappresentazione della nostra ottusa e infantile convinzione di avere in qualche modo il potere di tornare indietro. Rust Cohle aveva detto bene, in True Detective:
Nell’eternità, dove non esiste un tempo, nulla può crescere o diventare qualcosa. Nulla cambia. Così la morte ha creato il tempo per far crescere tutto ciò che avrebbe ucciso. E tu rinasci. Ma nella stessa vita, in cui sei già vissuto… questa è la sorte segreta e terribile dell’intera vita. Sei intrappolato in quell’incubo in cui continui a svegliarti.
“Gli incubi ti fanno pensare di aver visto cose che non hai visto. Sai cosa faccio quando ho un incubo? Chiudo gli occhi e penso a qualcosa di bello. Come essere qui con te.”
La disperazione di Jess è la disperazione dell’umanità, tutta. Un’umanità cieca e sorda, che piange guardando i morti di fame in tv, ma poi non si accorge minimamente dell’inferno in cui vive una vicina di casa. Un inferno che somiglia molto a quelli descritti da Lynch, tra giardini di un bel verde scintillante, con irrigatori in piena attività, panni stesi al sole e la quiete di un quartiere per bene.
Jess non è una cattiva madre, è una madre sola che non chiede aiuto. La mia amica (sì, è un’amica) non è una madre sbagliata, è una donna che lotta ogni giorno con un dolore mastodontico ed è stanca. Ma è talmente piena d’amore e intelligenza che indietro non si volta mai.
Guardate Triangle. E andate avanti.