Tutti, amico mio, tutti vivono per un futuro migliore
Maksim Gor’kij, “I bassifondi”
La frase di Gor’kij citata al termine della proiezione rappresenta, anche per noi, il modo migliore di introdurre e commentare un film che non a caso si intitola Something Better to Come, e che in fondo racconta proprio questo: un’ipotesi di riscatto sociale, con la luce che comincia a intravvedersi alla fine di quel tunnel che pareva infinito, un tunnel fatto di povertà estrema, emarginazione e condizioni di vita disumane. Non ci sorprende, pertanto, che l’empatico e attento pubblico triestino abbia voluto premiare proprio il lavoro della cineasta polacca Hanna Polak, quale miglior documentario del 26° Trieste Film Festival.
Al di là del suo alto valore etico, Something Better to Come è una co-produzione internazionale (con in prima fila la Danimarca) che ha richiesto grandissimo impegno, anche considerando che la protagonista Jula è stata “tenuta in osservazione” per diversi anni, insieme ad altre persone che nel lungo lasso di tempo (coincidente più o meno col decennio successivo al 2000) ne hanno condiviso l’assai triste condizione: (soprav)vivere in catapecchie ricavate ai bordi della Svalka, la più grande discarica d’Europa posta alla periferia di Mosca, creando una piccola e solidale comunità di dannati che ogni giorno devono procurarsi il cibo e qualche oggetto utile selezionando il tutto dai rifiuti in arrivo. Scene che siamo abituati a vedere e immaginare in Brasile, Messico, India. Ma che a quanto pare sono diventate comuni anche nella Russia post-sovietica, paese dai contrasti sempre più accentuati, dove il lusso sfrenato degli oligarchi e dei grandi hotel moscoviti si rispecchia nell’estremo degrado altrove raggiunto.
Ebbene, la visione del documentario di Hanna Polak è senza dubbio un pugno allo stomaco. Ci racconta di condizioni igienico-sanitarie al limite della sopportazione umana; di persone che deperiscono e si ammalano in quell’inferno, per venire poi accuratamente scansate e schifate dai propri connazionali; di blitz della polizia in cui i poveracci in questione vengono addirittura malmenati e privato del poco che hanno; di famiglie che negli anni di Eltsin e di Putin hanno perso la casa, il lavoro, il decoro, trovando infine nella Svalka, nel suo allucinante paesaggio fatto di scarti della società industriale, la loro ultima meta. O meglio, una destinazione che molti di loro intendevano come provvisoria, ma che si è poi trasformata in definitiva. Tuttavia Something Better to Come non è soltanto un’antologia di miserie umane. La narrazione abbonda anzi di slanci vitalistici, di capacità di adattamento, della volontà di “restare umani” anche quando la realtà circostante vorrebbe equipararti a un rifiuto. E la lunga epopea della giovanissima Jula, il cui sogno di trovare casa e costruirsi una famiglia il più lontano possibile da lì comincia faticosamente a concretizzarsi, è proprio la luce intravista alla fine del tunnel.
Stefano Coccia