Il comandante e l'equipaggio della nave, oramai stanchi delle sue continue stramberie, decisero di abbandonarlo nel continente. Questa è la fine, inaspettata e dolorosa, del suo sentimento ingenuo e folle. Ed è per questo che al marinaio, indifeso in terra straniera, non resta che ricordare il passato, interpretando ora il capitano (con cambio di berretti!), poi la ciurma, e anche l'infinito mare. Quest'atto, toccante e poetico, è un lungo monologo condotto dallo straordinario Carmine Maringola: da allegro e affaccendato marinaio, si trasforma in uomo in camicia di forza, ancorato al ricordo di un amore impossibile e ostacolato dai suoi stessi compagni. Poetico, dirompente e visionario, si asciuga continuamente la schiuma-saliva, rievocando la scampata tempesta, i dialoghi sulla nave, le avventure e gli abitanti dell'oceano (il pesce spada con due spade, la medusa gigantesca, il pesce palla che mostra da un lato il passato e dall'altro il futuro, il polipo arlecchino, il pesce giapponese con gli occhi a mandorla...). Sta lì, solo, straniero in terraferma, vive come una marionetta all'interno della prua incastrata nel pavimento, incapace di un futuro da uomo libero. La sua condizione esistenziale è espressa dalla costrizione fisica e spaziale: ogni suo movimento è sottolineato da quello conseguente delle spesse funi e ancore, ogni sua parola è un lamento per l'ingiustizia subita e l'impossibilità a far nulla. La canzone "Indifferentemente" sintetizza con grande potenza i sentimenti del mozzo: "Famme chello che vuò, indifferentemente, tanto 'o saccio che so', pe' te nun so' cchiù niente [...]" eseguita con struggimento assieme alla voce di Mario Abate.
Cala il sipario. Il secondo atto, "Il Castello della Zisa", parla di un ragazzo down, Nicola, che vive assistito da sovraeccitate e buffe suore in un istituto religioso. Il ragazzo dagli occhi sbarrati (con lenti) è lavato, vestito e stimolato da giocattoli, in maniera compulsiva e frenetica, ma senza risultati apparenti. Birilli, hula hoop, palline da circo vengono lanciati al giovane in pigiama, che resta immobile e inerte su di una piccola sedia. Ad un tratto però si ridesta, indossa la maschera da drago e rivela la sua storia. Viveva con la zia nel quartiere popolare della Zisa a Palermo e, dalla sua finestra, osservava il castello. Credeva di esserne il guardiano: poi all'età di 15 anni fu rinchiuso in istituto. La regista cura dettagliatamente gli oggetti di scena che evocano l'ambiente e i riti cristiani. Dal soffitto oscillano grosse croci, vi sono sedie coperte da lenzuola e, sul pavimento, tanti giochi colorati; ai due lati del palcoscenico due bambole con carillon tipiche della tradizione siciliana, ricorrenti nel repertorio della regista. Il giovane, portato via dall'abitazione e quartiere natio ma, soprattutto, privato del suo ruolo (la lotta contro i draghi e la custodia del castello), appare spento e indifferente alle due suore e ai loro buffi movimenti. Non provando più emozioni non può avere reazioni fisiche, tanto da suscitare nello spettatore solo compassione. L'inerzia e inutilità della sua vita è amplificata dai gesti ripetitivi delle stesse, tanto ossessivi quanto sterili. Caricano le pupe ai lati del palcoscenico, si vestono sincronicamente, bisbigliano, litigano esprimendosi con gesti, suoni e mugugni. Inscenano un insieme di riti insensati e ripetitivi: baciano i crocifissi appesi, pregano con parole senza senso, curano il ragazzo come fosse cosa inanimata.
L'ultima parte dello spettacolo è la malinconica e poetica "Ballarini", i cui protagonisti sono due anziani che da grossi bauli ripescano i ricordi di una vita trascorsa assieme. L'anziana attacca la spina dell'interruttore e accende le stelle in cielo; ricorda così il suo compagno l'ultimo capodanno passato assieme prima che morisse, lasciandola sola. Appare il vecchio dietro un'altra cassa. Eleganti e distinti, si avvicinano ed iniziano a ballare. Lei china dal peso della vecchiaia, si aggrappa dolcemente alla sua giacca. Si baciano, si addormentano, si curano a vicenda. Fanno dondolare l'orologio preso faticosamente dal taschino e attendono lo scoccare della mezzanotte. Festeggiano l'ultimo capodanno con coriandoli, petardi e una bottiglia di spumante. Si tolgono poi le maschere da vecchi, inforcando sempre gli stessi grossi occhiali e, dai bauli, prendono il velo da sposa, poi il vestito con pancione, il bambino e, con loro, le musiche e i ricordi di una vita. Pochi dialoghi e lunghi balli in coppia (dai lenti ai più scalmanati come "Il ballo del mattone"), per mostrare in rewind la loro dolcissima vecchiaia, il figlio, la notte d'amore, il matrimonio, la timida proposta ed i primi appuntamenti. La mezzanotte è scoccata e la vecchina rimette tutti gli oggetti a posto, richiudendo il baule (forse la sua bara). L'incanto finisce, terminano i ricordi e con essi la felicità: l'anziana donna ripiomba nel buio iniziale. La colonna sonora popolare, da Mina a Luigi Tenco, scandisce la storia della coppia ballerina, comune a quella di molte persone vissute nel periodo postbellico. Oramai diventati vecchi e malati, considerati peso dalla società contemporanea, mostrano un sentimento splendido che, vissuto solo mezzo secolo fa, appare, ora, lontano e desueto. Con dolcezza e forse invidia, si assiste a qualcosa che i giovani non riescono più a vivere, o forse neanche più desiderare: per periodo storico, posticipazione di scelte, precariato o solo per mancanza di coraggio. Tra una canzonetta e l'altra, infatti, si ripercorre il periodo del boom economico e la vita semplice di nonni e genitori, scandito da tappe prestabilite. È una storia che può sembrare banale, ma appare, oggi, come un dolcissimo ricordo sbiadito.
I tre atti, uniti dal pretesto degli occhiali, raccontano come un passato felice si tramuti in un presente di solitudine o d'indifferenza emotiva. L'attualità è vissuta dai teatranti nel ricordo nostalgico di ciò che è accaduto, con la consapevolezza di una oramai perduta felicità e serenità. A ciò si aggiunge la condizione attuale: il ritrovare se stessi è possibile solo rivivendo il tempo andato via. La regista Emma Dante parla di "creature che usano gli occhiali per difendersi dal mondo e per guardarlo come meglio credono [...]". Nella canzone "Un ottico" di Fabrizio De André, il medico inventa occhiali perché i suoi clienti possano vedere mondi diversi e fantastici; nella Trilogia le lenti sono solo il pretesto stilistico e filo conduttore degli spettacoli. I protagonisti raccontano se stessi e ciò che indossano non è certo la causa della visione distorta del mondo. Gli spettacoli sono caratterizzati e scanditi dal ritmo, dalla musica, dai gesti ripetitivi e soprattutto dalle performance degli attori della Compagnia. I temi sociali affrontati sono denunce e svelamenti delle ipocrisie del mondo contemporaneo: la povertà e solitudine del marinaio, la malattia mentale rinchiusa in un istituto religioso, la vecchiaia e melanconia di un'anziana. I linguaggi dei tre spettacoli sono diversi: 'O Spicchiato parla in napoletano stretto, sputa la schiuma del mare e canta le canzoni del repertorio italiano e napoletano; le suore laiche si esprimono con gesti e balbettii come le donnette di chiesa; infine i due vecchi intonano canzoni note a un'ordinaria coppia del periodo post-bellico. Alla chiusura del sipario, lo spettatore fedele al teatro della regista palermitana (sociale, graffiante e accuratissimo nelle musiche e scenografie), esce senza segno o dolore ma solo con un pizzico di melanconia per la condizione degli stessi protagonisti. Eccezionali gli attori della Compagnia Sud Costa Occidentale, il repertorio musicale toccante, gli oggetti di scena (carillon, maschere, giocattoli, bambole e bauli), la gestualità e potenza scenica di un teatro che racconta la vita reale degli invisibili.
Gli scatti inseriti nell'articolo sono stati gentilmente concessi dal Teatro Kismet OperA di Bari
Fotografie di Carmine Maringola ( Ballarini e Il castello della Zisa) e Giuseppe Di Stefano ( Acquasanta)