È un picaresco tragitto attraverso una Germania di distruzione, di collaborazionismo estremo, di contraffazione di idee e credenze, che si mesce al ritorno estremo e insondabile della sopravvivenza. Simgaringen, Baden-Baden, Zornhof, la Flensburg dell’ultimo governo nazi, con a capo l’ammiraglio Dönitz e tra i ministri quell’Albert Speer, architetto del Reich, impiegato modello della reiterazione della produzione bellica.
Folle di ungheresi, lituani, lettoni, franzosi, il milieu del collaborazionismo, e quei passaggi in quella Berlino terminale, paradigma junghiano dell’archetipo del male (come avrebbe scritto Brasillach: "Siamo andati a letto con la Germania e ci è anche piaciuto").
Manifestazione universale di idiomi babelici, frutto di una contaminazione che avrebbe dovuto portare alla costruzione del nuovo ordine mondiale.
Céline è tutto questo, nel bene e nel male. Protagonista ma anche fantoccio di una ubriacatura infernale che avrebbe fatto scrivere a Dante Virgili nel suo La distruzione: "Chi c’era a difendere nell’ultima ora il bunker estremo della Cancelleria? Le SS? Il partito? La Hitlerjugend? No. C’erano i franzosi della divisione Charlemagne, guidati dal belga Léon Degrelle."
E il maresciallo Pétain e il suo concetto di pays e paysans, così simile ai massacri della Guerra dei Cento Anni che partoriscono infine l’idea di nazione francese e inglese e l’artiglieria costiera franzosa del Maghreb che spara contro la flotta alleata nel ’42. E le Waffen-SS in fez bosniaco che fanno loro i messaggi di congratulazione al Führer, inviati dal Gran Mufti di Gerusalemme. E la polizia ebraica dei ghetti, estrema beffa della creazione del male, che collabora con i persecutori.
Trilogia del Nord è prodromo e infernale cesura di tutto questo. Di tutto quanto avrebbe fatto affermare a Primo Levi: "C’era Auschwitz e perciò non c’era Dio."
Un libro.
Trilogia del Nord, di Louis-Ferdinad Céline (Einaudi).