Trilogia di New York (Auster)

Creato il 18 gennaio 2014 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
Nell'accingermi alla recensione dei romanzi raccolti sotto il titolo di Trilogia di New York, pubblicati fra il 1985 e il 1987, mi imbatto in un problema tipico delle detective stories, dei thriller e dei gialli: parlare del libro, della vicenda narrata e dei personaggi senza rivelare i nodi fondamentali e rischiare di cadere nello spoiler. Sono arrivata alla Trilogia sulla scia degli elogi tributati a questo autore, considerato un caposaldo della letteratura americana contemporanea, e mi sono bastate poche pagine perché decidessi di approfondirne la conoscenza

Le tre storie si presentano come autonome e sono tutte incentrate sul tema della ricerca e dello scambio di ruoli e di identità: ad ogni pagina emerge il dubbio su chi sia a compiere le indagini e chi ne sia l'oggetto: nella New York in cui esse sono quasi totalmente ambientate (fanno eccezione solo un paio di capitoli dell'ultimo racconto) le atmosfere appaiono dissolte, come se la vita frenetica della metropoli statunitense fosse prepotentemente messa da parte.
Città di vetro ci presenta uno scrittore, Daniel Quinn, che risponde alla richiesta di aiuto di Virginia Stillman indirizzata in realtà all'investigatore Paul Auster: dovrà rintracciare e pedinare il padre di suo marito, che, uscito di prigione, cercherà probabilmente di uccidere il figlio; costui, da bambino, era stato sottoposto dal genitore ad un isolamento finalizzato a rintracciare l'idioma originario che, parlato da Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, avrebbe costituito la naturale espressione dell'uomo al di fuori delle influenze esterne e che si rivela essere per il vecchio Stillman un'ossessione.
Il confine fra pedinante e pedinato si annulla in Fantasmi, racconto permeato da una situazione ai limiti dell'anonimato: l'investigatore Blue è incaricato da White di sorvegliare Black e si ritrova bloccato nella paradossale ripetizione di atti sempre uguali, giorno dopo giorno, da parte del misterioso oggetto della sua missione.
Più articolato e più affascinante appare invece La stanza chiusa, in cui il narratore è protagonista di una strana vicenda innescata dalla sparizione di Fanshawe, il suo amico di gioventù. Quest'ultimo racconto, oltre a presentare un intreccio più vario e fatto di personaggi più chiaramente identificabili e raffigurabili, suggerisce più volte nuovi significati delle storie precedenti, poiché piccoli particolari nei nomi, negli incontri e nei gesti dei personaggi accendono rimandi e dubbi non solo sul racconto in corso, ma anche su quelli passati, mettendo ulteriormente in crisi le nostre impressioni e convinzioni.
Più o meno volontariamente, i tre protagonisti si trovano coinvolti in indagini di cui non comprendono pienamente il significato e rispetto alle quali molto rimane celato anche al lettore, perché Auster mira evidentemente a calarci nello stesso labirinto di specchi, in una vera e propria città di vetro (per citare uno dei titoli) in cui la verità appare solo in deboli e fugaci riflessi destinati a scomparire immediatamente per la loro fragilità, come fantasmi inafferrabili (e viene naturale un riferimento al secondo testo). E in questo gioco di inseguimenti si intesse un rompicapo in cui, parola dopo parola, il lettore può convincersi di aver carpito il senso della storia per poi perderlo nuovamente.
La narrazione di Auster procede in modo rapido sulle azioni, dedicando però ampio spazio a tutti quei particolari di cui ci sembra di non poter capire il significato. Si nota il gusto per le ambiguità per i comportamenti eccentrici (come quello del vecchio Stillman che raccoglie oggetti per strada o traccia curiosi percorsi intorno al motel eletto a propria residenza) per cui ci aspettiamo una spiegazione, ma senza che nulla ci venga realmente svelato.
Recita giustamente la quarta di copertina che Paul Auster ci trasporta 'in una città stravolta e allucinata, in cui ogni cosa si confonde e chiunque è sostituibile': la raffinatissima trama di Auster è densa ma inafferrabile, gradevolissima ma anche molto curata nei suoi fondamenti letterari e filosofici.

Paul Auster

«A piacergli, dei gialli, era il loro senso di pienezza ed economia. In un buon giallo nulla viene sprecato, non una frase, non una parola che non siano significative. E anche se non lo sono, hanno il potenziale per esserlo, il che è lo stesso. Il mondo del libro prende vita nel fermentare delle possibilità, dei segreti e delle contraddizioni. Poiché tutte le cose viste o dette, anche le più futili e banali, possono ricondurre allo scioglimento della vicenda, non si deve trascurare nulla. Tutto diviene essenza: il centro del libro si sposta a ogni avvenimento che lo proietta in avanti. Quindi il centro è dovunque, e non si può tracciare una circonferenza finché la lettura non è terminata.» (cit. p. 10)

C.M.

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