Il capitolo con cui inizia la trilogia è sicuramente il segmento più riuscito e suggestivo, e si connota già di primo acchito come capolavoro: Koyaanisqatsi (Koyaanisqatsi – Life Out of Balance, 1982). Col significato di “vita sregolata, tumultuosa”, questo film è un collage imperituro di immagini della natura più inesplorata, intonsa, che progressivamente si contrappone alla presenza dell’uomo, sempre più ingombrante fino a diventarne quasi surrogata. Da lande desolate fino a giungere a panorami affascinanti di canyon polimorfi, la quiete pervasiva di madre natura è interrotta e sconvolta dalla brulicante e incessante mobilità dell’essere umano. L’alienazione delle metropoli diventa sovrana, ammassi di umani e di macchine svuotano i corpi che si trasformano in gusci pronti ad accogliere catene di montaggio figlie del più sfrontato taylorismo. Le musiche di Glass (sopra la già elevata media il conturbante e famoso brano omonimo del film) accompagnano l’essere umano tra istantanee di corpi che si sgretolano, che si confondono, che diventano quasi un unico essere amorfo che si muove implacabilmente senza meta. Colonne umane, automobili, astronavi diventano linee continue, rette parallele che non si incontreranno mai.
Secondo capitolo della trilogia è il meno visionario, ma medesimamente efficace, Powaqqatsi (Powaqqatsi – Life in Trasformation, 1988). Questo pamphlet di “vita che muta, che si trasforma” è una sorta di requisitoria sullo sfruttamento, da parte dell’uomo, del pianeta Terra e del depauperamento che intercorre nei rapporti reciproci fra esseri umani. Immagini apparentemente più nitide, con minore uso della tecnica dell’accelerato, non corrispondono ad una minore resa sostanziale. Il così tanto amato ed ammirato progresso si trasforma, in un rapporto di consequenzialità ineluttabile, in un vero e proprio regresso. L’impatto dello sviluppo, tecnologico ed industriale, è strettamente correlato ad un più generale impoverimento di risorse: naturali, umane ed emotive. I bambini del mondo sorridono all’alba di un nuovo giorno, ma diventano tristi e cupi alla fine dello stesso. Fatica, sperequazioni e logiche sfrenate del profitto uccidono i sogni e le menti che gelosamente li custodiscono. Gli esseri umani sono ridotti a meri fantasmi che si aggirano solitari nei recessi più disadorni delle grandi metropoli, inconsapevoli e indifferenti l’uno alle necessità dell’altro. Uno dei concept frame meglio assemblati del film che ne ritraggono il sunto più adeguato. Il brano Anthem di Glass, celebre brano di questa struttura visiva, verrà utilizzato in altre pellicole, fra le quali The Truman Show (1998) di Peter Weir.
Ultimo componente di questo insieme di opere è Naqoyqatsi (Naqoyqatsi – Life as War, 2002), una vera e propria invettiva contro le logiche di una vita il cui unico modus è il “conflitto”, la “guerra”, il genocidio umano e culturale. I panorami naturali dei primi due lungometraggi vengono sostituiti da digressive sequenze numeriche, torrenziali e stranianti figure fatte di computer grafica. La perdita della sostanza dell’uomo all’interno di una società tecnocratica, smarrita all’interno dell’universo della “virtualità reale”, corrisponde ad un incremento esponenziale di violenza, di continua ostilità nella relazione fra creature figlie dello stesso seme. La logica demolente di simboli, di eserciti, di forze e di corporazioni repressive, di lobby che imperano indisturbate sull’universo a noi noto contestualizzano un’esistenza il cui avvenire è ormai in pericolo, corrotto e sull’orlo dell’abisso. Una “discesa nel Maelström” senza ritorno. In conclusione, questa trilogia di film altamente figurativi e tangibili danno la misura della direzione in cui si sta muovendo il nostro irrequieto tempo. Nonostante quella di Godfrey Reggio possa sembrare a molti una visione catastrofica e disfattista bisogna tenerne attentamente conto. Poiché sarebbe indubbiamente bello sperare in una rigenerazione dell’essere umano e del mondo che lo circonda. Una sorta di imitatio Christi laica ed atea, che ci rimembra quasi quel feto cosmico sospeso nell’atmosfera eterea dello spazio celeste in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) di Stanley Kubrick. Ma non affidiamoci soltanto al fato e rendiamoci conto del Paradiso Terrestre a cui stiamo rinunciando. Potrebbe essere questo il messaggio finale del regista e dei suoi lavori. Cogliamolo al volo. Carpe diem.