Trinità dei Pellegrini: la cappella e le sepolture dei suoi membri

Creato il 17 agosto 2014 da Vesuviolive


In piazzetta Fabrizio Pignatelli sorge la facciata in piperno di Santa Maria Materdomini, che conserva ancora l’originale e razionale aspetto cinquecentesco progettato dall’architetto Giovan Francesco di Palma (che opera anche nella chiesa dei Santi Severino e Sossio). Soffermando lo sguardo al di sopra del portale, l’occhio cade su una Madonna con Bambino, copia di una statua che si conserva all’interno della chiesa, sull’altare maggiore.

È la statua originale di uno dei più grandi scultori rinascimentali del sud Italia: Francesco Laurana, autore del rilievo raffigurante l’Ingresso trionfale di Alfonso d’Aragona a Napoli sul portale di Castel Nuovo e del Busto di Eleonora d’Aragona custodito a Palermo. Composta ma dolcissima, questa Madonna risale agli anni ’60 del Cinquecento ed è molto simile ad una più tarda scultura, dello stesso maestro, destinata alla Cappella Palatina nel Maschio Angioino.
L’altro notevole complesso scultoreo all’interno della chiesa è l’elegante sepolcro di Fabrizio Pignatelli.

Il protagonista sta inginocchiato in una nicchia, a capo chino, con una mano sul petto e l’altra adagiata sull’elmo, in memoria delle tante, troppe, battaglie combattute. L’artista, Michelangelo Naccherino, ha scelto di plasmare questa figura nel bronzo, e ha contornato questo energico ma malinconico nobile di marmi: la nicchia, i pilastri, le due colonne in marmo giallo antico, il sepolcro e i due leoni. A sormontare il complesso, un’iscrizione con la data di ultimazione dell’opera (1609).
Una stanza accanto alla chiesa mette in mostra, in una grande vetrina, delle interessantissime statue lignee, che gli studiosi hanno collocato tra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento. Sono manufatti legati alla passione di Cristo, sculture destinate al culto e alla devozione durante la Pasqua nell’epoca della Controriforma, quando si rappresentavano le tappe della Via Crucis in veri e propri spettacoli liturgici. Sebbene l’occhio contemporaneo può provare ripugnanza per certe figure così crude, per comprenderne il profondo valore, è necessario immergersi nella cultura dell’epoca, quando il pietistico era veicolo di cristianizzazione.

Ecco quindi la Maddalena, San Giovanni, la Madonna colti nel loro dolore, l’Ecce Homo (busto di Cristo con corona di spine e manto rosso), il Cristo alla colonna e il Cristo nell’Orto, espressioni diffusissime di devozione, che lo scultore e confratello dei Pellegrini Giovan Luigi della Monica esegue cercando di diluire l’espressività estrema, tipica delle sculture lignee dell’epoca, in favore di una parlata più equilibrata e assai umana. Oggi queste statue ci sembrano solitarie creature sofferenti, ma bisogna calarle in vere e proprie scene dove, assieme, recitavano con coralità la loro parte e non proponevano muti monologhi del dolore.

Nel 1754 si decise di creare, al di sotto del coro, un grande ambiente sotterraneo riservato alle sepolture dei confratelli: la cosiddetta Terrasanta. I cimiteri non esistevano ancora, e tutte le confraternite, nei loro oratori o chiese, avevano dei luoghi sotterranei dove seppellire i morti.
I confratelli, o i loro familiari, chiedevano di essere sepolti in quell’ipogeo, costruito dal Medrano. I corpi venivano interrati in singolari aiuole che ricoprono il pavimento, o erano inseriti in piccole celle aperte nelle pareti. Oggi l’umidità ha creato qualche danno, non strutturale, alla sala cupolata, ma rimane un brano di architettura estremamente interessante, oltre che un salto in un passato in cui la distanza tra i vivi e i morti era molto meno ridotta di quanto lo sia oggi.

Foto Francesca Perna


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