La memoria transeunte di Buren, nella città che fu di Minerva
Ludovico Einaudi - Stella del Mattino
Paola Pluchino. Reduce dall’imponente mostra al Grand Palais di Parigi, l’artista concettuale Daniel Buren, presta la sua arte per la settima edizione di Intersezioni, ospitata presso il Parco Scolacium del Marca di Catanzaro visitabile fino al 7 ottobre 2012.
Anche quest’anno, a curare l’intervento espositivo – in un anno di inaugurazioni sempre più ambizioso – il direttore artistico del Marca Alberto Fiz che, insieme alla Provincia di Catanzaro (sostenitore del progetto) e l’egida congiunta di Silvana Editoriale (cui viene affidato il catalogo dell’esposizione) ha dato vita a Intersezioni 7.
Riuniti nel verso di un approfondimento tematico che ha per nucleo la convergenza del tempo e il suo addensamento ideale, Costruire sulle vestigia: impermanenze. Opere in situ (Construire sur des vestiges, d’un éphémère à l’autre. Travaux in situ) propone interventi che richiamano il pensiero culturale della ricostruzione, poste nell’ottica di ricercare un ponte che abbia una continuità con il passato e con la storia, riabilitando inoltre l’originario metodo di fruizione dell’arte: pubblico e aperto.
Gli interventi site – specific concepiti da Buren per questa mostra impermanente, che va ad arricchire il già fruttuoso Parco della Scultura (che ospita opere di Stephan Balkenhol, Tony Cragg, Wim Delvoye, Jan Fabre, Antony Gormley, Dennis Oppenheim, Mimmo Paladino, Michelangelo Pistoletto e Marc Quinn) si presentano come cornici, porte e strutture in grado di interagire con l’ambiente circostante, nell’ottica di intessere un legamento forte e in contrappunto con il luogo per cui sono state pensate.
In questo senso, all’ operazione concettuale cui Daniel Buren ha abituato il fruitore (con l’uso costante di veri e propri stilemi cromatici riconoscibilissimi) se ne aggiunge una seconda, rivolta ad un ideale estetico per molti versi affine alla Land Art con cui molti artisti, saturi della celebrazione museale, hanno voluto confrontarsi.
Se la mostra al Grand Palais aveva come cardine la riappropriazione dell’uomo e della sua visione naturale, facendo quasi implodere l’opera all’interno di Monumenta, questa pone un interrogativo più pregnante, che riguarda la ridefinizione semantica dello spazio in rapporto all’oggetto.
Sempre presente – seppur declinato in forme meno evidenti – il gioco con la luce, sempre interessante e di gradevole risultato lo sforzo di porsi come mezzo, filtro e tramite per una riappropriazione del territorio che sembra andare oltre l’arte stessa, per confinarsi in un gioco di decime cui gli immensi uliveti fanno da ideale contraltare spirituale.