Contesa postmoderna del proprio piacere che sembra non contemplare le donne, se non una bambola sagomata e sex toys affini, Enter Achilles è spietato e imbarazzante: non per quello che mostra - la cultura suburbana della nostra tv ci ha abituato a ben altro - bensì per quello a cui allude sulla nostra disponibilità a rinunciare all'altro. In una pièce di 45 minuti dove giovani disinibiti ed esuberanti declinano il proprio estro nelle più fantasiose e leggere coreografie, il bisogno affettivo ed effimere, quanto intense, complicità prendono il posto dei rapporti umani. Su questo, i DV8 sono disumani. Sia in carne, sia di pezza, l'altro è un gioco, un compagno di figure splendide e suggestive, un alleato, non un amico (e meraviglioso mi pare a riguardo - come un complotto o un progetto - l'appellativo per il gruppo di dance coalition, non più physical theatre). Enter Achilles è una danza di sguardi cannibali (un po' Fassbinder e un po' Jarman), di corpi che si baloccano e si nutrono di altri corpi.
Come non c'è un'unica linea narrativa, a vantaggio di un sovrapporsi di controscene (l'azione ruota attorno al gruppo e al locale, con generose incursioni in altri luoghi, in bilico tra "interni" ed "esterni"), non c'è una linea sonora unitaria: attraverso un jukebox visto "di profilo" - che più vintage e più queer non si può - singoli danzatori frantumano gli sviluppi possibili. Il campionario di pezzi riporta la danza al clima goliardico e sprezzante di una festa di universitari fuorisede, dove tutto è centrifugo. Enter Achilles - interpretato, non solo danzato da eccellenti artisti - è un acrobatico slalom tra equilibri divergenti e vertiginosi, dove non è il peso dei corpi a dominare, bensì l'angelica ed esplosiva levità di un magnetismo animale fuori di sé.