A quanto pare non sono sufficienti morti di cancro, catastrofi, incidenti, per persuadere della necessità di tutelare ambiente, territorio e salute. E non basta nemmeno un pronunciamento popolare, se a ondate ricorrenti governi in carica decidono che è tempo di tradirlo. Se, a distanza di cinque anni , il governo tramite i suoi fedeli tutori in parlamento, cancella il voto di 26 milioni di italiani che vollero l’abrogazione del decreto Ronchi, attribuendo all’acqua il carattere di bene comune, che di conseguenza andava gestito ed erogato esclusivamente da soggetti pubblici.
In realtà quei si sono già stati rinnegati: nel Paese è tutto come prima, tra faide, passivi abissali e opacità incrementata da clientelismo e familismo. A Ferrara il comune, per far cassa, sta vendendo un pacchetto di azioni Hera, la società che riscuote le bollette di buona parte dell’Emilia Romagna e del Nord, da 8 milioni di euro. In Campania la giunta regionale si prepara a scontare di 157 milioni di euro il debito accumulato nei suoi confronti da Gori, un’azienda del gruppo Acea, a Roma è in arrivo un nuovo sistema tariffario grazie al quale saranno assicurati ai gestori i profitti di un tempo, calcolati come prima le referendum, ma chiamati con un altro nome. Ma mica gli basta, adesso vogliono il sigillo imperiale, anche simbolico, del primato del privato, così un drappello di deputati del Pd ha presentato due emendamenti “correttivi” del principio fondamentale che ispira il ddl del 2007 di iniziativa popolare riproposto da movimento 5 stelle, Sel e da qualche sparuto esponente di minoranza del partito della nazione. E infatti si propongono di cancellare quell’articolo 6 che, prendendo spunto dalla definizione di acqua come diritto umano, tanto da garantire a tutti una fornitura minima di 50 litri al giorno, prescrive l’affidamento del servizio idrico solo a enti di diritto pubblico pienamente controllati dallo Stato, escludendo Spa miste pubblico-privato.
È che al governo e al premier i referendum proprio non si addicono, e se si piegano a questo arcaico istituto è per convertirlo in espressione plebiscitaria di c0nsenso per qualche nefandezza, per qualche estremo oltraggio alla Costituzione e alla democrazia, per illudere che anche sia possibile una sia pure estemporanea e occasionale forma di partecipazione, una liturgia superstite dopo il fallimento perfino della primarie. Se si sono tenuti, meglio annullarne le moleste conseguenze. Se si stanno per officiare, allora si ricorre a tutte le possibili forme di prevenzione, trasformarle in eventi clandestini, ridurre la propaganda a generosi quanto occulti samizdat, proibirne la pubblicità. Così solerti prefetti somministrano pillole di bon ton istituzionale per vietare ai consigli comunali di riunirsi per prevedere iniziative di comunicazione e mobilitazione in revisione del referendum per il no alle trivelle promosso da cinque regioni, esibendo una circolare del Ministero dell’Interno secondo la quale “è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni”. È stata proprio la Sicilia a mettere in moto la macchina della censura, là dove la maggior parte dei sindaci è contraria alle trivellazione, e non solo quelli dei comuni costieri.
A volte si capisce che è in corso un continuo braccio di ferro per imporre un osceno autoritarismo. Perforare in mare è irrilevante per quanto riguarda l’approvvigionamento: se si decidesse di “sfruttare” i fondali dell’Adriatico si potrebbero estrarre, entro il 2020, 22 milioni di tonnellate di idrocarburi, a copertura del fabbisogno di 4 mesi di consumi, proprio quando la domanda di petrolio registra ormai un trend in flessione, per via della crisi ed anche di un sia pur lento cambiamento nel sistema energetico, prodotto dall’elettrificazione dei consumi e dall’efficienza. E’ rischioso: inquina più che per le eventuali perdite, per via delle necessarie procedure che accompagnano le operazioni con l’impiego di prodotti altamente tossici, esercita una pressione formidabile con il rischio di eventi sismici. E’ costoso e poco redditizio: hanno già dato forfait alcune compagnie che avevano inizialmente presentato domanda di autorizzazione, e che hanno valutato il pericolo di impegnarsi in attività onerose e osteggiate dalle popolazioni.
È evidente allora che si tratta di una pièce de résistence mirata a raggiungere una serie di disonorevoli obiettivi: intanto dimostrare emblematicamente che è il governo a comandare anche mediante il progressivo impoverimento dei poteri locali, la crescente espropriazione di competenze, l’indebolimento di quelle relative al controllo e alla vigilanza. Esibire come un’ostensione l’indole a appagare gli appetiti dei padroni, soprattutto quelli che appartengono alle dinastie imperiali, con predilezione per le multinazionali che su stanno accomodando in attesa delle magnifiche sorti e progressive del Ttip. Anche a far credere che il mare è liquido, circola, mica lo puoi trattenere, alzare muri o recintarlo, e allora lo si può cedere, dare in comodato, offrire in sacrificio alla Francia per una grande bouillabaisse sovranazionale coi nostri pesci, o alla Nato perché si eserciti all’arte della guerra.
Ma c’è anche un’altra immonda volontà: incrementare divisioni, popolare fronti avversi per praticare il ricatto come sistema di governo: occupazione o ambiente, lavoro o salute, come è avvenuto all’Ilva, come è avvenuto in troppi casi nei quali si sono artatamente contrapposti in un duello mortale le ragioni della salvaguardia del posto e della qualità di vita. E’ umiliante che ci riescano, che ci sia ancora qualcuno che cade nel loro tranello come il segretario Chimici Cgil, che si è schierato apertamente contro il referendum e a fianco delle trivelle, perché “siamo ancora lontani”, ha detto, da un “superamento dell’energia da fonte fossile” e mettendosi dalla parte delle lobby, della devastazione, dell’alienazione dei beni comuni e dei diritti, del brutto e del cattivo, come fosse un destino implacabile e che ci meritiamo per garantirci la sopravvivenza, che la vita deve essere esclusiva proprietaria e padronale.
Allora dobbiamo mostrare di saperci riscattare votando e facendo votare si il 17 aprile, se non vogliamo aspettare un’altra Chernobyl per sapere da che parte stare.