amore durissimo, articolarsi delle ossa, scorrevole
rotolarsi delle ossa dalla pelle, solitarie per quel loro esistere
la diramazione, incantare, mettersi nel canto, mettersi
tutte nel canto, nell’aspro canto del sangue, nell’angolo
appuntito dei nervi, nello schiocco delle membrane, nelle arterie,
nella violenza delle arterie, per quel lasciarsi ricoprire, isole
bianchissime nella carne, per la loro modestia di impalcatura,
di scheletro schivo, di lungo fiore sotterraneo, di radice – a.c.
Il solfeggio è una pratica che consiste nel leggere, ad alta voce e a tempo, uno spartito. Nel solfeggio parlato le note sono lette ritmicamente con il proprio nome, ma non intonate. Mentre viceversa nel solfeggio cantato esse sono intonate in un canto. E anche tra spartito e partitura è bene segnare una differenza. Una partitura, cioè un insieme di parti, è l’organizzazione grafica verticale di più righi musicali contemporaneamente, mentre uno spartito è la riduzione per canto e pianoforte di una composizione concepita per una forma di coralità vocale e strumentale. Se quindi si utilizza la scrittura in partitura, nella musica d’insieme, lo spartito concerne un solo strumento e una sola voce (wikipedia). Nel caso della poesia si può immaginare che lo strumento sia la vocalità del poeta e lo spartito, le parole. E non solo nell’ambito esclusivo di una lettura interpretativa. Se è vero che la pratica del solfeggio è utile per i musicisti neofiti, ed aiuta a prendere dimestichezza con lo spartito, le proprie parole scritte con l’espressività di sonorità altrui possono determinare una suddivisione temporale, che crea situazioni inusuali e del tutto nuove. E il tempo che viene normalmente rappresentato nel solfeggio mediante movimenti delle mani, approderà di fatto a una complicità tra la pronuncia di modo altrui e la voce riconoscibile anche nel proprio tentativo, qualora ci fosse, di emancipazione da quella che per prima abbia solfeggiato sul suo composto. In questo senso sembra un dichiarato solfeggio rosselliano il punto di partenza di Alessandra Cava, che con una scelta semantica singolare e riconoscibile, canta, da angolazioni diverse, la sua meccanica della solitudine, ricalcando sembra quella dell’Ortensia de La Libellula, pur non esaurendosi in questa forse, e con moventi più freschi, ma stringenti la stessa desolazione nell’amore che rumina e non può uscire di casa (Rosselli).
L’età non credo c’entri, in questo discorso, entra in qualche modo la dannazione antelucana del muscolo lingua (p.14) la saliva ereditata dall’alterco pregresso, l’essere ogni volta, e in qualsiasi età dannati e redenti dalla propria poesia. E’ un processo graduato l’accorrere alla propria lingua negli anni, per visioni scisse dalla semantica, che poi quando, e se, si partoriscono parole, i punti di questo processo sono precise piccole insistenti graduatorie (p.15) restituzioni memorabili, come la prima volta di tutto l’abitare, cioè la casa dello stare (p.16) il primo sedimento, la concrezione di queste e altre solitudini linguistiche capaci di farsi residenza. E quella casa è un posto da cui l’amore non può uscire se non infrangendo l’ossessione più pervicace, cui il poeta non rinuncia, pena molto più definitive rinunce: la sua lingua. E’ una sindrome antiquaria quella di questo occhio, che scova nella casa attuale l’infanzia ancora impressa in chi guarda nelle cose in sua piccolezza, in sua riduzione indicibile- (p.17). Chi guarda in questo modo remoto e totale, stando come sta una cellula al cosmo, è solo e partecipe alla meccanica della solitudine di Ortensia in modo quasi paradigmatico, patologicamente distante dalla pubertà, in perenne seduta nostalgica. Volto all’infanzia in cui la lingua sedimentava fotogrammi, è il poeta che manca il corpo attuale, il poeta che ha nostalgia del bambino, del suo essere tutto compreso nel viaggio, stabile divenire, timore, mare – (p.19). E ciò senza ridondare parole che nell’attuarsi lo dicano definitivo in questa instabilità perenne, che Alessandra Cava, pare rendere in modo sobrio, controbilanciando alla distanza determinata dall’avere la lingua per residenza, sempre un filo di ironia che la salva, salva la reale presenza del poeta nella pagina e agli occhi del lettore, come un’entità non del tutto astratta ma posta in una sospensione di sala d’aspetto, corpo in filigrana, organo incerto (p.20) che forse è pure visibile coi denti e con le braccia, fuori e dentro le mura, fuori all’aria terrazza: (p.21). E’ sempre la lingua che imbriglia nell’occhio l’amore, che chiude in una casa di specchi cioè nell’altro, il riflesso di se stessi. tu sei l’occhio tutto, sei tutto l’occhio che sei, sei la lente,/ l’obiettivo il confluire dello sguardo (p.26). Uno sguardo ininterrotto, spesso non producente, immobilizzato, come stretto dalla verticalità di un riflesso e nello stesso tempo bisognoso del continuo alimento del vedere, perdendo in ciò progressivamente parola, come nell’amore forse, stando fermi privi di volontà, l’intensità vi accade semplicemente, nei quattro lati buoni (p.26) senza scena, si impianta nella quint’essenza di noi in leggerezza nel peso della carta (p.26). E nel centro di questa chiusura è Ortensia, sopra a tutti, ad avvertire e negarsi il bisogno d’evasione come “di strana erba e strano fiore” (Rosselli) nello sbocciare alla volta del proprio odoroso volgersi fuori da tutti i balconi vedere passare (p.27) mentre da dentro –muri e finestre mi bastano intorno, artificio impagabile prima del giorno – (p.28). Si tratta quindi di un - processo di infrazione del mondo (p.36) non tanto nel cambiarlo di tempo, ma una ricostruzione dei frammenti secondo una tempistica avulsa che includa il vuoto, la pausa, il silenzio nell’unico luogo in cui si può stare e in cui in effetti si sta a scrivere/allora, si sta in angolo stretto, si sta - (p.36). Trovate Ortensia, scrive Rosselli “con lo spettro solo dell’amore, con il rispecchiamento dell’amore, con il disincanto, l’incanto e la frenesia”, e lo sgomento di superarsi in corsa, aggiunge Alessandra Cava assunta una leggerezza propria al termine del libro. Una leggerezza in cui il corpo è peso declinante, peso che storpia (p.41), una leggerezza a peso vivo vibrante nell’unica immobilità fattibile alle cose, quella che consente loro di rivelare al poeta il solfeggio nitido e quasi sereno, di esserne cantante, residente, amante.
(la città
macchina sconfitta di cerchia
eppure ogni strada d’arrivo
è residenza) a.c.