True Detective: la narrazione, l’essere umano e il piano sequenza

Creato il 13 febbraio 2014 da Elgraeco @HellGraeco

True Detective mi serve come esempio per riordinare le idee sul linguaggio e sul suo impiego. Perché questa è la serie adatta a lodi sperticate, paragoni, analisi, non certo quelle altre robe miserevoli di cui leggete anche su questo blog.

Una serie televisiva di genere poliziesco che però rifugge dal genere. Probabilmente farà venire mal di testa a tantissimi appassionati, con la sua struttura narrativa a incastro, che alterna piani temporali, mostra un killer armato di machete e maschera antigas sul finale onirico del terzo episodio, lasciando credere che ormai si fosse vicini alla sua cattura, per poi negarla, renderlo ineffabile, e rendere necessaria un’infiltrazione in territorio di gang di motociclisti.

Il tutto, badate bene, non senza alcuno scopo, ma con la precisa (e riuscita) intenzione di costruire i protagonisti.

Mantenendo il riserbo sul finale, a riguardo del quale ci poniamo le giuste domande: perché Rust e Marty non si parlano da più di dieci anni? Chi è il nuoco copycat che riproduce gli omicidi avvenuti all’epoca della loro indagine?, ciò che eccelle in True Detective è l’aver saputo fondere l’indagine, morbosa e tensiva, con la vita privata dei due protagonisti, sulla quale dicotomia è innestato il ritmo della narrazione.

Personaggi antitetici, Rust (Matthew McConaughey) e Marty (Woody Harrelson), ottimi attori, amici anche nella vita reale, che bilanciano la struttura della serie. Quanto teso e visionario, complice anche il suo passato oscuro nella narcotici, è Rust, tanto umano, troppo umano risulta essere Marty, coi suoi guai coniugali, la sua disperata voglia di confidarsi con un amico, il muro della diversità che separa (e unisce anche) entrambi.

E su tutto, l’indubbio fascino del folklore. Dei quali indizi, True Detective è letteralmente disseminato.

La Louisiana non è terra che puzza solo di zolfo, ma di ritualità più antica, pagana, quando a dominare la terra non era la Parola di Dio, ma esseri ancestrali, indifferenti alle sorti della scimmia uomo.

Uomo che, in quanto creatura istintiva che si pregia di essere razionale, è, a conti fatti, il tema dominante. A partire dal sottotitolo che accompagna i manifesti della serie: Man is the Cruelest Animal.
L’uomo è l’animale più crudele.
Che già di per sé, è un iperbole, non esistendo, in natura, animali crudeli. La crudeltà è propria dell’essere umano.

La pericolosità della specie umana è nella sua capacità di scelta di operare il bene o il male. Per capriccio.

Quindi è l’essere umano, a essere al centro della narrazione: e Rust e Marty ne sono, trattando nel particolare una materia universale, esempi e protagonisti.

L’uomo e la sua sovrastruttura sociale, con la quale inganna se stesso da secoli, illudendosi di spiegare, con idee avute per caso, l’inspiegabile: il senso della propria esistenza. E, chiarito quello, tentando di conferire a essa, l’esistenza, una dignità e un valore. Che non sembra possedere.

Guardate che cosa disegnano le figlie di Marty…

Difficile credere, a livello meramente logico, che un corpo di carne e sangue abbia un valore aggiunto rispetto all’intero universo. Vale così tanto l’illusione di avere una coscienza? Chi può saperlo?

Quindi possiamo concludere che se l’uomo è il tema dominante, il dubbio circa la sua natura è il metodo secondo cui gli autori di True Detective hanno deciso di investigarlo, per l’appunto.

Siamo ciò che desideriamo, diceva un personaggio di un noto romanzo. Rust e Marty investigano la natura umana di un killer che comunica attraverso le sue vittime. La scena appare irrazionale, le tracce seguite anche, ma non importa, visto che anche la cosiddetta normalità è senza senso, soltanto più diffusa rispetto alla rarità.

Si tratta di mutare la propria percezione, nella persona della coppia di investigatori, sforzarsi di far quadrare gli indizi e cambiare la propria logica in quella aliena del killer che devono catturare.

Ritorna, in questo quarto episodio, il Re in Giallo, Carcosa e soprattutto il segno. Quella spirale che l’assassino disegna sopra i corpi delle vittime e che è, a tutti gli effetti, la rivelazione. L’alterazione della realtà, da scontata e familiare, a folle e assoluta.

Credo che l’ingresso in questo nuovo piano d’esistenza, che si suppone essere il reame del Re in Giallo, non sia una semplice parentesi sovrannaturale, come in Twin Peaks, ma uno slittamento dei valori, della semantica, un ingresso vero e proprio dei protagonisti (o almeno di uno dei due, Rust; che infatti vede il medesimo segno formato temporaneamente da uno stormo di uccelli) in una dimensione nuova, dalla quale entrambi, dopo anni, ne usciranno irrimediabilmente cambiati.

È, come sempre, il prezzo che corrisponde a una nuova conoscenza.

Questa la serie a un livello concettuale, che io ho potuto scorgere.

Circa l’aspetto tecnico, la resa è encomiabile. I colori desaturati, i dialoghi brillanti, i set ancestrali e selvaggi. Tutto concorre a elevare True Detective a vette forse non ancora raggiunte da altri, a segnare un nuovo limite, dietro il quale prodotti scadenti devono nascondersi per la vergogna.

Infine, ammirate nel quarto episodio, il piano sequenza finale. Immenso, complicatissimo, orchestrale, con la cinepresa che segue l’irruzione di Rust in un quartiere a maggioranza nera, sede di spacciatori, s’insinua nelle case, tra i fucili, nel sangue che schizza quando la violenza esplode veloce. E si conclude con una tempistica perfetta, sulla portiera aperta della vettura di Marty, sopraggiunto a soccorrere il collega.

Questo è cinema e filosofia, non semplice televisione.

Ammirevole.

Quest’articolo è dedicato a Silvia


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