I Coen sono tornati. Per altri versi sono rinati. Per altri sono morti. Tutte e tre le opzioni sono vere, senza se e senza ma. Il ritorno ha fatto più rumore del solito, con lauti incassi. Il film precedente, "A serious man", un anno fa, aveva conquistato solo i fan yiddish del duo. La rinascita è un qualcosa che appartiene alla poetica dei fratelli (uno dei loro film più atipici è il viaggio new-age nell'Odissea di Omero con l'Ulisse-Clooney a farsi battezzare nelle acque). A due film di distanza da "Non è un paese per vecchi", il loro Oscar, e dopo due opere interlocutorie (non per qualità, ma per destinazione del prodotto, con il marchio di fabbrica in neretto e una vendibilità limitata), i Coen rinascono con un western dall'ampio sapore popolare, che non è altro che un remake. E nell'America odierna, a parte casi rari, il remake è l'unico collante per un genere discontinuo come il western. Ma la rinascita è anche una morte. A differenza di "Non è un paese per vecchi", in cui l'elemento assoluto e filosofico di McCarthy era usato, interpretato e ben si addiceva all'atteggiamento insolito e alla poetica pessimista e fatalista dei Coen, in "True Grint" del cinismo, della violenza-metafora, della cattiveria black, c'è ben poco ed è accuratamente nascosto (una sequenza che viene facilmente in mente è quella in cui Matt Damon picchia, con sculacciate severe, la giovane protagonista). I Coen mettono da parte il gioco che ha retto i loro capolavori e ripartono dal cinema classico, magari privandolo di qualche lagnosità eccessiva, ma mantenendo, in fin dei conti, tranne che nel finale, molto più vicino al loro modo di pensare insolente e poco pacificato, i caratteri tipici del genere. L'estrosità del personaggio di Javier Bardem in "Non è un paese per vecchi", Anton Chigurh, è sostituita dall'interiorità dei protagonisti maschili, da un Jeff Bridges che punta tutto sulla voce, la quale sembra echeggiare un passato ricco di tabacco (in realtà una voce corposa e spezzata c'è quasi sempre, anche come narratore esterno, nei film dei fratelli, ambientati nel mondo assolato americano), ad un Matt Damon inquieto, ad un Josh Brolin (una particina) che è l'antitesi di Chigurh, un criminale sfibrato, dipendente dall'alcool. Ma il personaggio meglio riuscito e, forse, più moderno è quello di Hailee Steinfeld, che soprattutto nella prima parte, è il fulcro unico e gustoso della pellicola con un atteggiamento adulto, che impressiona e sdogana il topos della donna-sottomessa, tipico del western. Grazie ad un'ottima interpretazione (la Steinfeld è la migliore del cast), il film riesce, senza esagerazioni esteriori, a modificare nettamente l'impianto tradizionale del gener, delineando un ritratto di giovane ragazza che riesce a vivere nel mondo della vendetta e dello scontro tanto quanto gli uomini. Menzione alla cinemotografia di Roger Deakins, loro collaboratore. Anche le musiche di Carter Burwell sono perfette. In fin dei conti, nessuna genialata ma tanto ottimo mestiere.
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