TTIP e TPP: il Senato USA respinge il "pacco" di Obama (e l'UE dorme)

Creato il 14 maggio 2015 da Redatagli

In questi giorni Barack Obama ha incassato una netta sconfitta sul fronte politico interno, che avrà ripercussioni sulla politica commerciale degli Stati Uniti e sui suoi partner internazionali.
Lo sforzo dell'amministrazione Obama in questi ultimi anni si è concentrato sul consolidamento della ripresa economica, per rafforzare il ruolo di leadership mondiale dello Zio Sam. Ovviamente, rafforzarlo nei confronti della superpotenza emergente, ossia la Cina.
Tra Pechino e Washington i rapporti sono altamente complicati da un garbuglio di situazioni di economia reale, economia finanziaria e zone di influenza geopolitica, che sarebbe lunghissimo anche solo elencare - figuriamoci analizzare; per ora ci basti sapere che - come da manuali di economia - uno dei modi per rafforzare il PIL è incrementare le esportazioni di prodotto.

Per agire sul mercato commerciale mondiale, il team del Presidente sta lavorando - segretissimamente - a due trattati: uno è il Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti (per gli amici, il TTIP: qui  trovate un nostro articolo che spiega in parole povere di che si tratta) e riguarda l'Europa; l'altro è il Trans-Pacific Partnership (per gli amici, TPP) e grossomodo è un accordo della stessa portata per l'altro sbocco sul mare statunitense, finalizzato a intessere relazioni commerciali vantaggiose con 11 Paesi dell'estremo oriente e dell'America latina affacciata sul Pacifico.

Senza approfondire la questione (se desiderate che svisceriamo anche il TPP, segnalatecelo sulla nostra Pagina Facebook e ci attiveremo), possiamo presumere che il trattato Atlantico sia molto vantaggioso per gli USA, mentre il trattato Pacifico sia un po' più controverso. Perché "presumere" e basta? Perché, come, detto, le trattative sono segretissime.
Ad ogni modo, pare che mentre il TTIP dovrebbe essere molto vantaggioso per gli Stati Uniti e relativamente penalizzante per l'UE, l'accordo gemello veda gli USA come parte debole e l'estremo oriente come parte forte.

Com'è possibile? Nel momento in cui si riducono o addirittura si abbattono i dazi commerciali (o comunque si creano corsie preferenziali di interscambio commerciale tra il Paese A e il Paese B) i mercati di A vengono invasi dai prodotti di B e viceversa.
Questo significa che la concorrenza aumenta; dunque si compete in linea di massima su due fronti, la qualità del prodotto e il prezzo (non è vero, ci sono altre variabili in gioco, ma è per schematizzare). E se, per via di un mercato del lavoro più flessibile e dai costi più bassi sia in termini assoluti sia per una pressione fiscale molto minore, il lavoro USA costa meno del lavoro - ad esempio - tedesco (salario minimo per Ora in Germania: 9,21 Euro; salario minimo per Ora negli USA: 7,25 Dollari), è facile immaginare che i prodotti tedeschi non potranno fare guerra sul prezzo in America, e subiranno una guerra sul prezzo in Germania da parte dell'arrivo agevolato dei prodotti Made in USA.

Ora proviamo lo stesso ragionamento con la Malesia, o con Singapore, o con il Cile (tutti in trattativa per il TPP): già solo per ragioni valutarie, il costo del lavoro sarà verosimilmente assai minore. Con la conseguenza che gli USA si troverebbero a subire sul mercato interno una concorrenza sul prezzo da parte di prodotti esteri. E se pensate che basti la sola qualità del prodotto americano, è perché non avete mai posseduto una moto giapponese o un computer sudcoreano.

Quindi, per farla breve, la politica USA vede di buon occhio il trattato sull'Atlantico, ma è spaventata dal trattato sul Pacifico.
In questi giorni Barack Obama doveva chiedere il mandato al Senato per essere autorizzato a trattare l'accordo commerciale. Da vecchia volpe, il Presidente ha accorpato le due richieste. È andato al Senato e ha detto: "Carissimi, mi accreditate per trattare segretamente e con ampi poteri discrezionali il Trattato Atlantico che vi piace tanto e contemporaneamente il Trattato Pacifico che vedete come il fumo negli occhi?".

Ma il Senato non ha mollato: non solo ha respinto la proposta di Obama, ma lo ha fatto con tutto il Partito Democratico (il partito di Obama stesso) che ha votato contro l'autorizzazione, alla quasi unanimità (un solo favorevole).
A guidare la fronda interna ai Democrats è stata Elisabeth Warren, che stando alle parole di Mario Platero, corrispondente da NY di Radio 24, è "una creatura di Barack Obama", un personaggio che il Presidente ha imposto come esponente di livello nazionale; ciononostante, la Warren ha guidato lo scontro tra le due frange del Partito, quella moderata e quella liberal (ossia radicale). Vi ricorda qualcosa?

Allusioni a parte (in verità, campate in aria), la crisi è gravissima: Obama ha ricevuto uno stop sul lato pratico e uno schiaffo sul lato morale. Il Senato e soprattutto il Partito del Presidente hanno bocciato, di fatto, tutto il piano commerciale di Obama, a pochi mesi dalle elezioni di novembre (che non vedranno concorrere il Presidente uscente, già al secondo mandato); inoltre, alcuni Paesi in trattativa come Giappone e Malesia non hanno gradito né il rifiuto del senato né il clamore che ha suscitato la vicenda, e temono (fondatamente) che Obama dovrà tornare sui suoi passi e stringere con il Pacifico un accordo al ribasso: meglio scontentare i contraenti esteri che il proprio elettorato in Patria.
Nel frattempo l'Unione Europea dorme, e il dibattito sul TTIP è nella migliore delle ipotesi caciarone e pressapochista, e nella peggiore delle ipotesi sedato con grida di giubilo parecchio assiomatiche. Nessuno sa cosa sta trattando l'UE assieme agli USA, ma i governanti vari dicono che la popolazione deve essere contenta. Così, sulla fiducia.

A conferma del disinteresse - piuttosto pilotato - che l'opinione pubblica ha nei confronti del Trattato Transatlantico, basta vedere come la notizia (non) è stata trattata sulla home dei quotidiani generalisti. Un provincialismo desolante; salvo un domani lamentarsi, a cose fatte, di questa o quella architettura economica sfavorevole.

Umberto Mangiardi
@UMangiardi


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