Tullio De Mauro, nozione di cultura, “spazio culturale”

Creato il 24 febbraio 2012 da Bruno Corino @CorinoBruno


Le due accezioni del termine cultura
Nell’intervista sulla cultura degli italiani, Tullio De Mauro ricorda quali sono le due accezioni più ricorrenti del significato di cultura: uno restrittivo e di stampo filosofico-letterario, l’altro, ampio e unitario, e di matrice “etoantropologica”. Queste accezioni, potremmo dire, rispondono a prospettive diverse: quella umanistica ed elitaria, volta a inserire un criterio valutativo nei “prodotti” culturali, e quella antropologica volta proprio ad evitare qualsiasi criterio di valutazione. Analizzata nell’ambito della prospettiva umanistica, si può parlare di cultura “alta” opposta a quella “bassa”, d’èlite o popolare: «L’irriflessa equazione tra cultura e arti è il risultato di una linea di pensiero particolarmente diffusa in quelle discipline chiamate in generale umanistiche, in cui la cultura viene tradizionalmente considerata una sfera di valore superiore e universale». L’altra accezione, originatasi sul terreno degli studi antropologici, s’approssima alla nozione di cultura “in senso descrittivo”, “neutro”, o, se vogliamo usare un’espressione weberiana, in senso “avalutativo”.

De Mauro si è sempre e decisamente schierato per una nozione “ampia e unitaria” di cultura a fronte dell’altra, “restrittiva” ed elitaria, imposta da una tradizione «letterario-filosofica» o, piuttosto, «letterario-ideologica». Tanti intellettuali, invece, quando affrontano problemi o questioni legati alla cultura, amano prendere soltanto un segmento della intera produzione culturale, quello appunto considerato o ritenuto più “alto” e “creativo”, e lo “scambiano” l’unico segmento di valore.

Precisata questa prima distinzione tra i due “usi” del termine, come è d’obbligo ogni discussione sulla “nozione” di cultura, comincia con una definizione. Nel saggio La nozione di «cultura» (1978), De Mauro scrive: «Noi ci proponiamo qui di chiamare cultura qualunque forma di vita che non sia prevista come obbligatoria dal patrimonio genetico di una specie, anche se, evidentemente, non contraddice a questo patrimonio».

Su questa nozione di cultura – come scriverà in un intervento più recente – intesa come «capacità di produrre e riprodurre, creare e accogliere Lebensformen elaborate, apprese e trasmesse su base sì naturale, ma ben oltre ogni eredità genetica», convergono, «pur nella sfaccettata varietà di tratti definitori», sia studiosi di antropologia culturale sia studiosi di etologia, quale Dànilo Mainardi. A questi approcci disciplinari, De Mauro affianca altri pensatori provenienti da aree di riflessione distanti dalle prime. Anzitutto, la cultura quale Lebenformen rimanda al filosofo e logico Ludwig Wittgenstein. In secondo luogo, è presente la nozione gramsciana di cultura.

De Mauro, quando affronta la nozione di cultura, rimanda soprattutto, alle capacità che esseri umani hanno di saper trasmettere/insegnare (e apprendere) – capacità possedute in minore o in maggior grado da ogni specie animali – comportamenti, cose o abilità non predisposte dal proprio corredo genetico. In altri termini, questa posizione si pone su una linea di continuità tra il mondo umano e quello non umano. La capacità d’apprendere segmenti di esperienze non predisposti dal proprio corredo genetico appartiene tanto agli animali che agli umani. Ogni specie animale, compresa quella umana, ha la capacità di saper modificare o variare il proprio comportamento. La cultura, pertanto, ha la stessa funzione che l’istinto ha nel mondo animale, vale a dire, la cultura “elabora” le risposte adattandole ai diversi e molteplici bisogni che le forme di vita fanno emergere.


Le tre radici della cultura: imitazione, ricombinazione, invenzione

Ne' La nozione di cultura (cfr. L’Italia delle Italie,1978), De Mauro fa espressamente riferimento “a tre diverse capacità vitali” come componenti essenziali dell’essere animali culturali: la prima capacità è la capacità di imitazione e ripetizione di segmenti dell’esperienza. La seconda capacità riguarda la capacità combinatoria dei segmenti dell’esperienza. La terza, invece, riguarda la capacità inventiva, “capacità di cui gli esseri umani paiono dotati in grado particolare rispetto ad altri animali”. Ciascuno di questi assi circoscrive un’istanza delle capacità umane: il primo riguarda “l’ampiezza della localizzazione imitativa”; la seconda, “l’articolezza” formale/informale; la terza, la “innovatività” o creatività.

In sintesi, potremmo dire che le tre capacità corrispondano alla capacità di saper stabilizzare un ordine di risposte apprese; in secondo luogo, alla capacità di saperle articolare; in terzo luogo, alla capacità di saper alterare la composizione, sino a configurarla in un modo diverso facendo così emergere un ordine nuovo di risposte non previste dal patrimonio culturale acquisito.

La prima capacità presuppone la capacità di memorizzare e conservare i dati dell’esperienza. La seconda presuppone che ci siano dei dati sui quali possiamo intervenire e manipolare combinandoli in modo diverso da come erano configurati. La terza presuppone la capacità di saper inventare dati nuovi.

Sulla base di queste tre capacità, De Mauro costruisce un primo modello di spazio culturale, assumendo a coordinate le tre capacità vitali: «È importante dire subito e ricordare sempre che la collocazione rispetto a un asse è una variabile indipendente rispetto alla collocazione sugli altri due».

L’introduzione di queste tre coordinate consente di vedere l’unità dello spazio culturale non solo come un’unità ordinata, ma anche e soprattutto come un’unità ordinabile. Insomma, sulla base di queste tre capacità diventa possibile poter collocare ogni attività umana all’interno di uno spazio “ideale” e pluridimensionale, evitando così quel rischio di appiattimento cui la nozione ampia di cultura poteva incorrere. Questo modello pone una correlazione tra capacità culturali e sue “risposte” o “soluzioni” non innate, ossia sui sono “prodotti”.

Abbiamo visto che le capacità vitali (imitativa, articolativa e innovativa) sono un correlato della quantità e varietà delle risposte da acquisire. In altri termini, maggiori sono le “risposte” da acquisire per far fronte alla complessità sociale, maggiori abilità, competenze e conoscenze occorreranno, qualora si voglia attivare la possibilità per ciascun individuo di muoversi in questo spazio. Finché un individuo vive all’interno di un gruppo sociale “povero” di risposte culturali, oppure “semplice” dal punto di vista sociale, in sostanza finché vive in uno spazio culturale fortemente connotato di “localismi”, le sue capacità vitali saranno prevalentemente imitative e ripetitive, saranno scarsamente articolate e quasi per nulla innovative. In un ambiente culturale siffatto a prevalere sarebbe la tradizione, ossia la trasmissione di conoscenze e abilità avverrebbe per imitazione e ripetizione.

Anche i suoi prodotti culturali (l’idioma, i gesti, le cerimonie rituali, gli strumenti e gli attrezzi di lavoro, nonché le armi di offesa o di difesa, le regole e le usanze di vita) sarebbero scarsamente soggetti a essere articolati e innovativi. In un ambiente, invece, altamente complesso, quale si presenta il nostro mondo tecnologico, l’ordine delle abilità si rovescia completamente. In tale ambiente culturale, la capacità di articolezza ed innovazione prevalgono sulla capacità di imitazione e ripetizione. I prodotti culturali si presentono in modo molto più sofisticato. Per muoversi e viaggiare da un punto all’altro del pianeta, ad esempio, occorrono molte più conoscenze e abilità di quanto fossero un tempo richieste.

Le capacità vitali è complessità sociale sono intimamente correlate. Se, come crediamo, la complessità sociale è correlata alla quantità e della varietà di risposte non innate in essa presenti, allora anche le capacità vitali sono correlate da questa quantità e varietà. Tuttavia, la qualità “imitativa”, quella della maggiore o minore l’articolezza, e quella dell’innovatività da quale lato si dispongono: dal lato delle capacità vitali o dei suoi prodotti culturali? Il modello elaborato è uno strumento euristico sia per “valutare” le capacità vitali di un singolo individuo che per dare una valutazione generali dei fatti culturali.

Pertanto, attraverso questo modello teorico trovano una loro collocazione le due accezioni della nozione di cultura che una lunga tradizione intellettuale ha creduto di poter separare e mantenere distinte, e risponde a quella esigenza di unitarietà richiesta quando s’affrontano temi così “complessi”.


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