La penisola delle pipelines. Un grande pannello della Botaş, l’azienda statale turca competente, ne indicava con lucine colorate i percorsi – attivati o progettati – attraverso l’Anatolia: la grande attrazione, nello spazio allestito per gli sponsor, della quarta edizione dell’Energy and Economic Summit organizzato dall’Atlantic Council a Istanbul, il 15 e 16 novembre scorsi (in precedenza focalizzato sull’area del mar Nero, oggi esteso come campo d’interesse a tutto il continente eurasiatico). Per sostenere il proprio boom economico e stili di vita pienamente moderni, la Turchia deve assicurarsi fonti energetiche in quantità sempre maggiore: il nucleare e le rinnovabili per il futuro, petrolio e gas naturale nell’immediato; il trasporto dagli stati confinanti a est avviene e avverrà in larghissima parte attraverso oleodotti e gasdotti: e l’obiettivo della Turchia è quello di trasformarsi in hub, in zona di smistamento – così da intascare royalties strada facendo – verso l’Europa. Anche per questo motivo, praticamente ogni volta che intervengono in consessi internazionali, le autorità di Ankara si rammaricano della mancata apertura da parte dell’Unione europea – a causa di miopi veti, specialmente in un periodo di crisi – del capitolo negoziale sull’energia: gli interessi sono comuni, una strategia comune sarebbe nell’interesse di tutti. Lo ha fatto anche il ministro dell’energia e delle risorse naturali, Taner Yıldız, durante la cerimonia di apertura del summit.
In riva al Bosforo si sono dati appuntamento ministri, ambasciatori, analisti strategici, capitani d’industria, finanziatori: pochi lunghi discorsi, molti scambi serrati e ad alto ritmo; i corridoi e le sale private, poi, hanno testimoniato incontri politici e d’affari: la soddisfazione era stampata sul volto di molti, i profitti continuano ad avere molti zeri. Il leitmotiv del forum può essere infatti riassunto in “più pipelines per tutti”: perché la diversificazione delle fonti di approvvigionamento e dei percorsi per il trasferimento verso ovest (in alcuni casi verso est e sud, Cina e Indocina) è la miglior garanzia per prezzi equilibrati e quantitativi soddisfacenti; sono tutte benvenute: Tanap, Nabucco West, South Stream, l’oleodotto Samsun-Ceyhan per evitare il passaggio delle petroliere sul Bosforo. Ma anche Robert Blake, sottosegretario americano con responsabilità per l’Asia centrale e meridionale, ha lanciato una frase ad effetto (amichevolmente rubata al ministro degli esteri del Kazakistan): dal great game al great gain, dal grande gioco delle grandi potenze (Russia e Gran Bretagna, poi Urss e Usa) per conquistare influenza geopolitica in Asia centrale al “grande guadagno”. Di tutti, per l’appunto.
Nelle numerose sessioni durante i due giorni di lavori si è parlato di Asia centrale, Afghanistan e Turkmenistan, Iraq e Iran, ovviamente Russia, ma anche Cina e Stati Uniti, Africa e Mediterraneo – con un occhio di riguardo agli sviluppi tecnologici previsti nei prossimi decenni. E proprio il panel dedicato a quelli che in Turchia vengono chiamati il mar Nero e il mar Bianco (cioè, il Mediterraneo) – e alle risorse di gas naturale – ha dato vita a una delle discussioni di maggior rilevanza, economica e politica: perché il dialogo tra Amit Mor, israeliano e amministratore delegato dell’israeliana Eco Energy, e Mithat Rende, turco e direttore generale per gli affari economici multilaterali e l’energia al ministero degli esteri (no ha partecipato al panel, è però ripetutamente intervenuto durante la sessione delle domande dal “pubblico”), ha richiamato l’attenzione sul triangolo Israele-Cipro-Turchia – un triangolo dell’instabilità o della prosperità nel mediterraneo orientale, a seconda dell’evoluzione che avranno i rapporti tra gli attuali contendenti.
Mor è partito richiamando le tre grandi scoperte degli ultimi anni, tutte opera dell’americana Noble: il giacimento Tamar, 90 chilometri a largo delle coste israeliane di Haifa, che dovrebbe contenere 250 miliardi di metri cubi di gas (e in grado di soddisfare per 20 anni il fabbisogno di Israele); il gigantesco Leviathan, sempre a largo di Haifa e con risorse addirittura superiori, circa 450 miliardi di metri cubi; e infine Aphrodite, ancora più a largo e già nella zona economica esclusiva della Repubblica di Cipro, con 200 miliardi di metri cubi di gas e qualche miliardo di barili di petrolio. Le opportunità di sfruttamento ed esportazioni sono enormi, le complicazioni anche. In primo luogo, c’è la guerra permanente israelo-palestinese: e le piattaforme, i gasdotti e gli altri impianti necessari rappresenteranno un obiettivo particolarmente allettante; in secondo luogo, la mancata riunificazione di Cipro e i rapporti burrascosi tra Israele e Turchia rendono al momento improbabile uno sfruttamento congiunto.
Ma come Rende ha sottolineato, riprendendo le considerazioni del ministro Yıldız il giorno prima (“dovremmo usare le risorse in idrocarburi per migliorare la cooperazione regionale”), è proprio un progetto condiviso – cioè, una pipeline che si congiunge alla rete turca e di conseguenza a quella europea – il modo economicamente più conveniente di operare. Ha difeso la posizione della Turchia nei confronti di Israele, che si è irrigidita dopo l’assalto alla Mavi Marmara nel maggio 2010 (nove attiviti turchi uccisi dai commandos israeliani) e non cambierà di tono fino a quando non arriveranno scuse formali, risarcimenti e la fine del blocco di Gaza; ha ribadito quella nei confronti della situazione a Cipro: difesa degli interessi dei turco-ciprioti attivando esplorazioni autonome (difese da navi da guerra) ed escludendo dal mercato turco quelle aziende – è coinvolta anche l’Eni, ad esempio – che operano nell’area contesa in assenza di un accordo su come dividere i profitti tra le due comunità cipriote. Ha concluso dicendo che auspica per il futuro una soluzione complessiva del contenzioso affinché “il gas naturale del Mediterraneo orientale possa essere sfruttato come un sistema integrato, sostenuto dalle banche e commercialmente realizzabile”.
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