Da piccolo pensavo sempre: che culo, i registi.
Per fare il regista, mi dicevo, devi essere sculato di natura.
Perché uno come me, cresciuto a pane, Terminator e Ritorno al futuro, non poteva certo fare a meno di meravigliarsi di come i registi riuscissero sempre a beccare gli eroi più cazzuti, le storie più funamboliche, gli amori più veri e struggenti.
E il regista che esprime al meglio questo mio dilemma è Roland Emmerich.
È specializzato in film catastrofici: Independence Day, Godzilla, The day after tomorrow e 2012, solo per citarne alcuni.
Film a budget minimo di duecento milioni di dollari, film in cui la computer grafica fa il novantapercènto, in cui lui si limita a inserire una storia di una banalità disarmante, roba che Avatar je fa ‘na pippa, con un padre di famiglia divorziato che oh, poverino, i figli lo odiano perché pensa sempre al lavoro, la moglie l’ha lasciato per un boro di Centocelle, la sua sveglia suona sempre troppo tardi e non è capace neanche di fare una lista della spesa come si deve.
Un po’ come un autore che, tipo, si fa scrivere un libro da un pool di esperti e poi ci cambia i nomi dei personaggi.
Un po’ come un cuoco che si fa preparare in franciàising una torta nuziale della Madonna e poi ci mette una ciliegia di zucchero sopra.
Ma Roland Emmerich, cazzo, non ha soltanto culo, ha anche una certa capacità di individuare i talenti nascosti, perché gli eroi dei suoi film, appunto, in molti casi non sono altro che benpensanti incravattati che però tuttantràtto si scoprono capaci di imprese ciclopiche, di pirotecnici salti con la macchina mentre uno tsunami devastante gli solletica il buco del culo, di scalare un grattacielo mentre l’intestino gli cola via dalla pancia aperta da una zaccagnata, di tuffarsi in fondo alle acque ghiacciate di un mondo in sfanculazione per togliere lo scalpello che impedisce a una postmoderna Arca di Noè di chiudere il portello e prendere il largo, salvando migliaia, ma che dico milioni!, di poveri emigranti Asiacentràlici.
E ci vuole talento, per questo, eh.
Perché pensate a cosa succederebbe se il suddetto crucco sbagliasse protagonista, e imbeccasse per sbaglio il coglione che viene investito dallo tsunami al minuto quattro e cinquantatré, mentre si smanetta con una rivista porno al cesso di casa sua.
Me lo immagino, l’Emmerich nazionale, che smadonna al megafono, e dice merda!, ho sbagliato personaggio, emmò?
E poi, insomma, non voglio pensare alla faccia che farebbero i produttori: cazzone, ho investito mezzo miliardo di dollari in questo film e tu te li fumi filmando il primo coglione che schioppa sulla tazza del cesso?
E magari, Roland Emmerich che gli risponde: eddài, vedi il lato positivo, può uscirne un bel cortometraggio.
Invece, Roland Emmerich non sbaglia mai.
Roland Emmerich è Dio.
Roland Emmerich riesce sempre a scegliere personaggi un’esattezza disarmante. Personaggi in grado di lottare, da soli, contro le più grandi catastrofi naturali, che tornano in mezzo al deserto popolato da alieni rettiliformi per recuperare il peluche caro al figlio del quale un giudice bastardo non gli ha concesso l’affidamento.
Invece, la vita è tutt’altra cosa.
La vita riesce sempre a essere di un’inesattezza sconvolgente, riesce a trovare la sabbia per incularti nel bel mezzo di Times Square.
La vita è un unico, grande errore.
Passa il suo tempo a farsi vomitare addosso insulti di ogni genere, ti porta a pensare che non esista uno stracazzo di motivo per cui valga la pena di viverla diversamente da come abbia fatto Sid Vicious, ti induce a tirare giù interi calendari Gregoriani, ti connette sfighe come pezzi del domino, una dopo l’altra, ché quando le cose iniziano ad andare male, non c’è verso che non vadano ancora peggio, fino al delirio, fino a quando il cervello gridabbàsta, bbàsta.
E poi, come una pennellata di Munch su un quadro di Fontana, la vita ti regala attimi di surreale e irripetibile poesia.
Niente di minimamente paragonabile in termini di durata ed effettaccatenìstica rispetto a ciò che di negativo ti ha in precedenza rifilato, intendiamoci. Roba di un istante, un secondo. Uno sguardo, un sorriso, indici della mano destra che ti sfiorano.
Attimi, però, colorati di tutta la delicatezza del mondo.
Attimi che si siedono in un angolo del cervello, in silenzio, e poi non te li scordi più.
E la tua vita, da quel momento, diventa un’interminabile esplorazione delle sinapsi per riagganciarti al ricordo di quell’attimo, e la tua testa è un cavo dell’iPod in ricerca costante e asfissiante di una presa uessebbì.
Perché dentro ha un’immagine, nitida e circoscritta, infinitesimale, un file txt in mezzo a due milioni di immagini di dischi Blu-Ray.
E tu, tu lo sai che la memoria è donna, e per questo volatile, effimera, e lo sai che quell’immagine è destinata a diventare sfocata, a perdersi in un marasma di numeri telefonici, aggiornamenti di file Excel, appuntamenti per il caffè e liste della spesa al supermercato, a meno che tu non la coltivi con passione, con dedizione e costanza, come un loto lungo tutto l’arco della sua interminabile gestazione.
A meno che tu non dedichi a quell’immagine lo stesso impegno che Silvio Berlusconi ha dedicato alla tutela giuridica della sua persona (stronzo).
Ed è per questo che siamo tutti così vacui, così miseramente eterei.
Perché perdiamo tempo appresso ai massimi sistemi, appresso ai capisaldi della vita, appresso a polpettoni mastodontici come il lavoro, la famiglia, la macchina, l’abbonamento MetreBus, mentre non abbiamo la forza, o meglio la voglia, di custodire e crescere ciò che di minimo c’è in noi.
E questo, forse, è solo un modo poetico di dire la più grande banalità mai partorita: che la felicità, in fondo, sta nelle piccole cose.
E allora, lunga vita a Roland Emmerich, sculato profeta dell’esattezza, patetico vate in Terra di ciò che è giusto e bello.
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