Tutta questa bellezza inutile

Creato il 25 agosto 2010 da Fabry2010

di

ALESSANDRO CARRERA

Una donna sta percorrendo il corridoio di un museo, fermandosi a osservare quadri e statue. Tra la forte compostezza dell’arte romana si sente piccola; poi svolta nell’ala del Rinascimento e le figure della più idealizzata bellezza che mai sia stata immaginata torreggiano sopra di lei, ma le sono familiari, e non ha la sensazione che la tengano lontana. Si spinge fino alla sala dei preraffaelliti, con le loro fanciulle ellenizzate che scendono lunghe scale dirette a qualche segreta cerimonia, e percepisce lo sforzo del pittore di far tornare indietro il tempo, perché la bellezza descritta in quei quadri è impossibile, e dovrebbe esistere solo nel passato. Poi la donna volge lo sguardo al compagno che la vita le ha concesso e non può trattenersi dal compararlo alle forme che ha appena visto. Non c’è modo di redimere la povera figura di quell’uomo vivo di fronte a tanto dispiego di bellezza inutile. Ora che è disturbata dalle imperfezioni del suo accompagnatore, dalle sue membra men che proporzionate, dalle superfluità della sua circonferenza, alla donna non resta che immaginare come si viveva all’epoca in cui quei quadri furono dipinti, quando storia e leggenda erano in rotta di collisione, il tempo storico aveva ingaggiato una guerra gioiosa con l’alone di una possibile assenza di storia, e i colori si mescolavano sul campo di battaglia senza distinguere amici e nemici, come i cavalli e i cavalieri di Paolo Uccello.

Giorni mai vissuti da nessuno, e che pure il museo allinea sui muri delle sale, finché la donna si convince di averli mancati, come si manca un fatto grandioso di cui qualcuno ci ha detto: “Io c’ero”, e che da quel momento si muta in una leggenda da cui saremo esclusi per sempre. Alla donna è rimasto il suo compagno, magari di buoni sentimenti, ma un po’ in carne e poco attraente. Nemmeno lei, nella sua presente incarnazione, potrebbe competere con bellezze che mai si sono incarnate. Così, poiché sono insieme e lo rimarranno per un tempo ragionevole, la donna si attende da lui un correttivo, un’arguzia, una frizione di passione e di umorismo che la sollevi dall’ansia di tutta quella bellezza inutile, ma la liberazione non viene. Senza quella collisione di storia e di leggenda non sarebbe così bella ai suoi tempi, quell’arte. Non è così bella neanche adesso. Il suo fascino sta nell’eccesso sensoriale incautamente incoraggiato dal museo. È come un deposito di polveri da sparo dove non importa in quale punto si accende la scintilla, se accanto a una botte di esplosivo o a pochi granelli sparsi a terra.

Ci vuole un po’ di conveniente stupidità: bisogna essere un po’ semplicioni per credere davvero a tutta quella bellezza. Bisogna essere ingenui come un professore di storia dell’arte che porta le scolaresche in visita, per non capire che nessun museo può sperare di farla franca di fronte al realismo di una classe di adolescenti, per non parlare del loro giustificato sospetto di essere stati imbrogliati. I ragazzi sono troppo preoccupati della loro furbizia, troppo impegnati a misurarsela tra loro, per accorgersi che in questo caso sono stati gli adulti a ingannare se stessi. Dove il loro accompagnatore vede il pericolo che il deposito di polveri esploda, i ragazzi cercano la miccia abbandonata a cui dar fuoco. Non ci incantate con queste quattro croste, si dicono tra loro. La bellezza è tutta inutile, se ci viene venduta da qualcuno che rimpiange i tempi in cui era lui stesso come noi siamo ora. E poi a noi non serve la bellezza. Quello che ci serve è il controllo su noi stessi, il distacco che tiene alla frusta le passioni che voi rimpiangete. Il vostro entusiasmo, la vostra dedizione, il vostro desiderio di passarci la vostra biblioteca quando sarete morti, tutta questa generosità ci fa venire il mal di stomaco. A guardare queste pareti non ci sentiamo parte di una storia che è più grande di noi. Non c’è nessuna storia più grande di noi e della nostra età. E noi non abbiamo età.

La donna, che ora si trova nella stessa stanza con la scolaresca, assiste impotente alle loro congiure. Messa davanti al tentativo dei ragazzi di riaccendere la macchina del tempo e di proiettarsi in un futuro nel quale i musei saranno finalmente inaccessibili, come città Maya nascoste sotto la giungla, comincia a sospettare che offrire sconti per comitive non faccia nessun bene alla bellezza. Sotto i suoi occhi ha visto l’arte e il pubblico cancellarsi l’un l’altro. Tutt’altro che una collisione tra storia e leggenda; solo uno sfiorarsi a vicenda di una disperata vanità da parte dei maestri e di un seducente vandalismo da parte degli allievi. È strano, pensa la donna, ma è irrimediabile. La bellezza non è fatta per essere comprata, ma se nessuno la compra diventa inutile. Perché l’arte non è un esercizio quotidiano, come la palestra e lo yoga. Non è un percorso iniziatico che conduce a livelli di sapienza insospettati e che quando sono raggiunti possiamo considerare acquisiti. L’arte è un continuo lutto, una continua perdita, un incessante spreco di tempo e di vita che nessuno restituirà mai, e che viene perseguita all’unico scopo di fermare per strada gli uomini che non si voltano e indicar loro quel punto laggiù, dietro di loro, lontanissimo, dove tutto era contenuto, dove tutto si capiva, e dove tutto ha cominciato ad andar male.

La donna è la poesia, il museo è la letteratura raccolta in antologie, il suo silenzioso compagno è lo sponsor del momento, ragionevolmente convinto che le donne non fanno male a occuparsi di quelle figure carine che stanno appese ai muri, e la scolaresca in gita sono i giovani poeti. Non i lettori, perché la poesia non ha lettori, ha solo poeti che occasionalmente leggono versi altrui. Ma la donna, purtroppo per lei, sa quello che i giovani in gita non sanno: che anche la loro scontrosa e incolta bellezza è inutile, e che non importa quanto livore e astuzia metteranno nell’impresa di crearsi una carriera: non ce la faranno mai, non ce la faranno più. A meno che non si accontentino di comparire alle letture pubbliche, fra molti anni, come vecchietti sorridenti e inoffensivi, confermando appieno il giudizio dei passanti, che essere un poeta significa essere molto vecchi, molto saggi e singolarmente sciocchi. La donna ricorda con un brivido una lettura a cui ha assistito recentemente, in una grande città settentrionale, durante la quale un celebre scrittore e poeta straniero aveva chiesto a un celebre poeta italiano, tra la gioia dei molti presenti: “Ma c’è poesia negli occhi dei bambini?” La donna ricorda che vent’anni fa i fischi si sarebbero sentiti fino in periferia. Forse era meglio, pensa la donna, quando ai dibattiti sulla poesia si parlava di tutto tranne che di poesia; perché adesso che non ci sarebbe nient’altro di cui parlare, adesso che ci sarebbe davvero da parlarne, è proprio ora che la poesia è più inoffensiva che mai, e che lo zucchero ci arriva alle narici.

La donna non ha paura che il museo vada davvero a fuoco o che, dopo aver scavato immense gallerie sotterranee per stiparci le opere che non hanno posto sui muri, finisca per crollare e sprofondarci dentro. La donna sa che la poesia è diventata troppo irreale per morire. Ci sarà sempre qualcuno che la riscoprirà, ne farà collezione, passerà la vita a cercare il significato di: “E cinquecento catenelle d’oro / hanno legato il tuo amore al mio”, o magari vorrà sbarazzarsi di ogni senso ed esporsi al puro enigma delle concatenazioni, a quel rosario che non si finisce mai di sgranare e che lo farà sentire molto simile a una suora cattolica, a qualcuno che ha sposato un mistero.

Se fosse come un pezzo da collezione dannatamente difficile da trovare; se andare a cercarla potesse ancora dare un senso di avventura, un rapporto erotico con un amore sempre più distante delle braccia, se tornasse ad essere un’esperienza rara, un segreto da condividere con pochi, una risorsa a cui ricorrere in privato, come tutti i piaceri che ci danno le passioni autentiche, che coltiviamo nell’intimità e nella condivisione dei sodali, la poesia sarebbe ancora necessaria. Il segreto per destare l’attenzione, disse una volta Gertrude Stein, è un pubblico ristretto. Ma la poesia ha vita ancora meno facile. Il suo pubblico, che è ristretto, va a sentire il poeta, lo applaude e lo ama, ma non lo legge. Chi non ha visto, a conclusione di una lettura pubblica, le stesse persone che un minuto prima si spellavano le mani davanti al Poeta, passare ora davanti al povero baracchino dei libri in vendita con un sorriso di compatimento, come a dire: “Sono uscito di casa e sono venuto fin qui; adesso non vi aspetterete che io compri davvero questa roba?” La poesia non è più la prima fra le arti, e forse non ha più molto da invidiare alla canzone e alla performance, ma purtroppo per lei non è canzone e non è performance. Non ha bisogno di un pubblico, ha bisogno di lettori.

La poesia non sarà salvata dal suo pubblico. Posto che valga la pena di salvarla, neanche fosse Venezia sotto l’acqua alta, lo sarà da quei pochi che partiranno in spedizione notturna per andarla a godere in segreto, come si gode qualunque cosa che ci è davvero preziosa. Le scuole di scrittura creativa stanno purtroppo facendo uno splendido lavoro. Incoraggiano ogni minima scintilla di talento che incontrano per via, non ammettono anime perdute, sono peggio dell’Esercito della Salvezza. Non insegnano la cosa più importante: che scriviamo ciò di cui ci vogliamo liberare, ma leggiamo solo ciò che ci dà piacere. Non ci sono sensi di colpa che tengano, siamo come i ragazzi in visita al museo. Ci possono somministrare tutte le lezioni che vogliono, ma noi sappiamo che non c’è storia più grande della nostra, di noi che non abbiamo storia. L’insegnante si sgola, cerca di convincere i suoi studenti che la poesia è come uno sport che l’adolescente deve praticare se vuole crescere sano. Ma la poesia non fa crescere sani. La poesia fa impazzire. È come il vento d’alta montagna o la notte artica che dura sei mesi. Non è una cura e non è una malattia: è la tentazione di una malattia, la più incurabile di tutte, quella che ha nome disciplina.

Articolo apparso su “La clessidra” nel 2002, in seguito ne I poeti sono impossibili. Come fare il poeta senza diventare insopportabile (Roma, Il Filo, 2005, Premio Bertolucci 2006 per la critica letteraria)
Alessandro Carrera, poeta, romanziere, critico letterario e musicale, Assistant Professor e direttore del programma di studi italiani nel Department of Modern and Classical Languages della University of Houston. Tra le sue ultime pubblicazioni, La consistenza della luce. Il pensiero della natura da Goethe a Calvino (Milano, Feltrinelli, 2010).


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