Tutti a casa

Da Icalamari @frperinelli

E quindi stamane sono entrata nel solito bar, stavolta senza le amiche, ero da sola (e il barman che dimostra trent’anni -però ne ha ventitre- per questo mi ha snobbato, perché non ero con le solite amiche, non perché fossi da sola, perché poi è entrata da sola una ragazza molto bella e lui non l’ha snobbata affatto, e il bicchier d’acqua col caffè l’ho chiesto all’altro suo collega, uno che a occhio croce dovrebbe navigare sui quaranta, ma forse ne ha di meno, di anni.

- È un problema d’età -, ho fatto tra me e me, – la sua.

Ma comunque.)

Sono entrata, non per abitudine, perché da sola io difficilmente ci entro, al bar, la mattina, quando vado di corsa perché sono in ritardo. Ci sono entrata perché sentivo freddo. O, più che freddo, un umido, che risaliva dalle caviglie su per le ginocchia, e mi serviva qualcosa di caldo che dall’alto calasse in giù a rinfrancare il tutto, incluse le caviglie e le ginocchia. Qualcosa come un caffè sarebbe stato sufficiente.

Entrando, al vento che mi accompagnava in una folata dalla porta aperta e richiusa, ho detto che oggi faceva un clima milanese. Tutto quell’umido, quel cielo grigio, quella cappa. Ma di più, quelle sonorità attutite, come per un coperchio gigante che spingesse sopra la grande pentola della Capitale.

Mossa sbagliata.

Il barman-romano-tipo non te lo fa passare l’accostamento di Roma con Milano. Sul finale del match ho raccolto la solidarietà del titolare che ha fatto, a mezza bocca:

- È un problema d’età, non ci scordiamo che ha solo ventitre anni.

Sono uscita che il cielo come al solito si apriva. Al solito per Roma. Non faccio in tempo a giurare che di certo pioverà, che il sole mi smentisce. E il caso opposto, ma meno di frequente.

Ho alzato la testa e l’ho notato, il po’ di azzurro che si apriva il varco, solo perché sentivo roteare pale di elicottero. Niente di strano, è la colonna sonora della città. La testa l’ho alzata giusto per verificare la zona dalla quale stare alla larga, in questi tempi di proteste e forche improvvisate.

Bisogna stare all’erta. E poi, tengo famiglia.

Proprio stamane, quando ho portato il pupo a scuola, ho trovato i bidelli tutti in ambasce. Si era perso O.

- Io vado a vedere alla fermata dell’autobus.

- Io resto davanti al cancello.

- Io guardo meglio dentro.

- Io cerco alle scuole medie.

Ho chiesto cos’era successo, come se non avessi sentito abbastanza. O. è un compagno di classe di mio figlio. Ha sei anni ed è di etnia Rom.

- Ha lasciato la sorellina nei guai e lui è sparito.

Abbiamo proseguito camminando fianco a fianco in silenzio, fino all’ingresso. Ho salutato il mio bambino stringendomelo addosso un po’ più del solito, chissà se se n’è accorto. E me ne sono andata, guardando se per caso ci fosse O. nei dintorni. Bella cosa, un bimbo di sei anni in giro da solo in questa città-incubo.

Subito dopo, dentro una metro piena, ha fatto il suo ingresso una zingara sui venticinque anni. Dico venticinque perché quando l’ho conosciuta, circa cinque anni fa, ne dimostrava una ventina, ma forse ne aveva già di più. Lo ostetriche dell’ospedale, ai tempi in cui le frequentavo, mi avevano raccontato che, impronta genetica a parte, i Rom in genere crescono poco perché piuttosto malnutriti nell’infanzia. Le mamme hanno poco latte perché malnutrite a loro volta. Come gli italiani che nascevano a cavallo delle due guerre, gracili e sottopeso per le carenze nutrizionali.

È entrata questa ragazza con la quale ricordo che cinque anni fa, tornando dalla mia maternità al lavoro, proprio attendendo la metro, avevo scambiato due parole affettuose. Allora teneva in braccio il suo neonato, lo cullava e gli sussurrava cose, piano piano, vicino alle piccole orecchie.

- Buon giorno signori e signorini…

Oggi ne aveva tra le braccia un altro, di neonato, e pareva stanca. Aveva appena iniziato la sua litania quando una signora bionda e stizzita ha fatto il gesto di aprire il portafogli, tirando fuori con rabbia delle monete, e dicendo:

- Io te lo do “un piccolo aiuto”, ma perché quel bambino dorme così pesantemente mentre tu gli strilli addosso? Gli hai dato del sonnifero, dì la verità!

- Sì, come no,- rispondeva lei, – Come anche tu dai del sonnifero ai tuoi figli.

- Io figli, vivaddio, non ne ho fatti, ma se ne avessi non li tratterei come tu tratti i tuoi!

Nel frattempo, in totale indipendenza dalla scena sopra descritta, si svolgeva il passaggio delle monete da una mano all’altra, conclusa la quale la ragazza si è fatta largo tra la folla, cercando spazi adatti a riprendere con calma la sua questua.

Io ero confusa. E arrabbiata. Avevo ancora in mente le facce pallide dei bidelli che cercavano O. Se fosse stata lei sua madre?

E mentre mi voltavo per non farmi riconoscere, come se in tutta Roma ci fossi solo io a far due chiacchiere una tantum con le zingare, una donnina sui sessanta mi lanciava segnali con gli occhi.

- Che roba, eh? – Le ho detto, convinta che deplorasse le insinuazioni della donatrice di elemosine. Ma ciò che ho ricevuto di rimando è stato:

- Dico io, non potrebbero dargli una pillola, a questi, per fargli fare meno figli? Questi qui sono pieni di soldi, e il Comune gli dà pure il posto dove vivere, se promettono di mandare i figli a scuola. Bisogna mandarli a casa tutti.

- Ma chi?

- Tutti.

Cercando di sviscerare il suo “Come”, l’ho persa. Voglio accennare, giusto per inquadrare meglio la mia interlocutrice, che ci ha tenuto a farmi sapere che lei non è assolutamente di sinistra. Ma che è andata a votare Renzi alle primarie, perché sembra promettere bene, come i forconi che oggi riempiono le piazze, che a lei stanno tanto simpatici. E che solo un anno fa, per lo stesso motivo, aveva votato Grillo, ma ora le sembra che si sia rammollito.

Fuori, più tardi, di nuovo sotto il cielo che sembrava grigio, ma che invece tramava all’ombra delle nuvole per aprirsi alla chetichella, con quel suo classico modo romano e noncurante, sono entrata nel solito bar, e poi ne sono uscita. Ho alzato gli occhi cercando di capire dove stessero ronzando gli elicotteri della Polizia.

E ho visto il blu, inatteso.

Come le buone notizie alle quali non speravi più, come certi finali che intuivi dall’inizio che si sarebbero realizzati, ma che la trama che si stava svolgendo proprio non ti faceva credere possibili.

Sono andata a chiudermi nel posto di lavoro, chiedendomi se intanto O. l’avessero trovato. Augurandomi che perlomeno fosse tornato da solo a quella baracca che chiama la sua casa.


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