Tutto tutto niente niente

Creato il 20 dicembre 2012 da Af68 @AntonioFalcone1

Così come ho sempre apprezzato la bravura di Antonio Albanese, più negli spettacoli teatrali o nelle apparizioni televisive che al cinema (eccezion fatta per Qualunquemente, a mio avviso la migliore espressione in tale ambito della sua visione sociale surreale e grottesca), con altrettanta franchezza non posso fare a meno d’esprimere un senso di profonda delusione per Tutto tutto niente niente. Diretto da Giulio Manfredonia, su sceneggiatura dell’attore e di Piero Guerrera, il film mi ha lasciato la brutta sensazione che quanto si volesse esprimere a livello di scrittura sia rimasto inerme sullo schermo, destinato a lasciare il tempo che trova una volta usciti dalla sala. Il vivido fregolismo di Albanese, che si fa in tre, e la forza psichedelica resa da costumi (Roberto Chiocchi) e scenografia (Marco Belluzzi), si sostanziano alla fin fine in un ameno girotondo di sketch, sullo sfondo di uno scenario suddiviso, in precario equilibrio, tra il cabaret e il circense.
Nulla possono le pur buone interpretazioni a contorno della narrazione, come quella del bravo Fabrizio Bentivoglio, nei panni di un subdolo sottosegretario, caratterizzazione più pacchiana che propriamente grottesca.

Fabrizio Bentivoglio

Venendo al plot narrativo, nelle sue linee essenziali, si delinea intorno le figure di tre individui che a breve conosceranno sia l’esperienza delle patrie galere, per diversi motivi, sia quella parlamentare, quest’ultima grazie al prodigo intervento del suddetto sottosegretario, braccio destro di un silente presidente del consiglio (Paolo Villaggio, apre bocca solo per rimpinzarsi), nell’emergenza d’ ovviare ad un ammanco della maggioranza parlamentare, ricorrendo ai primi nelle liste dei non eletti: Cetto La Qualunque, colluso sindaco calabrese, il veneto Rodolfo Favaretto, secessionista doc, che paventa una connessione con l’Austria (oltre ad una bretella autostradale che attraversi il suo paesello), addestrando un esercito d’immigrati clandestini, buoni anche come mano d’opera per restaurare la sua villa, il pugliese Frengo Stoppato, guru in erba, leader di un movimento dal programma a dir poco stupefacente, con sede in una non precisata isola, tornato in Italia richiamato dalla cattolicissima madre (Lunetta Savino), propensa ad adoperarsi perché venga proclamato beato in vita …

Paolo Villaggio

Manfredonia mi è parso piuttosto a disagio nel gestire quanto proposto da Albanese, tanto a livello di script, quanto della visualizzazione relativa ai tre personaggi cui l’attore dà vita, per un risultato che fatica non poco ad acquisire un’efficace e plausibile valenza cinematografica, tra risate a denti stretti e caratterizzazioni alla fin fine piuttosto bonarie, anche se spesso piuttosto grevi, nascondendosi dietro il paravento di un politicamente scorretto manieristico (una scena su tutte, quella in cui Cetto va incontro alla sua prima disavventura sessuale) o reso così, tanto per gradire (le teorie di Frengo relativamente ai dogmi della Chiesa cattolica, urlate nel corso di una conferenza tra alti prelati), chiassoso ed eccessivo. La tanto declamata caratterizzazione delle stanze del potere, tra ecclesiastici in tiro, onorevoli togati e parlamento- stadio, appare debitrice, almeno questa è stata la mia impressione, dei primi due film su Fantozzi diretti da Luciano Salce, anche se in quel caso era declinata in chiave impiegatizia, fra megadirettori e “cari inferiori”.

Frengo, Favaretto e Cetto La Qualunque

Comunque il problema non consiste nel se e nel come si riesca a fare satira intorno ad un sistema politico ormai del tutto simile a quegli squali che, feriti durante la cattura, in piena frenesia alimentare, arrivano ad addentare le loro stesse viscere, a quanto narrano antiche leggende marinare, ma nel constatare la triste circostanza di come nel nostro paese si sia già ben più avanti, in svariate circostanze, a sostenere la caricatura di un sistema democratico, fra i mai passati di moda panem et circenses , vizi privati e pubbliche virtù, senza dimenticare le foglie di fico volte a nascondere le vergogne costituite da vari conflitti d’interesse. La sola rappresentazione dello status quo, senza delineare un minimo d’ideologia in contrasto, anche a livello d’utopica speranza, non è “semplicemente neorealismo”, come si è detto in corso di qualche presentazione, ma la solita pacca sulla spalla auto assolutoria, propria di tante, troppe, commedie nostrane che si sono succedute sugli schermi in questi ultimi trent’anni, tranne, ovvio, poche e felici eccezioni.
Tra quest’ultime dispiace non poter annoverare Tutto tutto niente niente , pellicola il cui pregio più evidente è farsi forza di un titolo lungimirante sulla sua reale consistenza filmica: nel dubbio se l’effetto sia voluto o meno, meglio rispettare le italiche tradizioni ed affidare il responso ai posteri.

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