Nonostante tali costi decisamente alti, la televisione si impone rapidamente: la si guarda prima nei cinema e nei teatri, poi nei bar e nei circoli, entra gradualmente nelle case borghesi. Trasmissioni come “Lascia o raddoppia” o “Il musichiere” diventano immensamente popolari. I primi varietà, come “Un, due, tre” e “Canzonissima”, sceneggiati come “Piccole donne”, trasmissioni informative come “L’amico degli animali”, grandi eventi come le nozze di Ranieri di Monaco e Grace Kelly, Sanremo o il funerale di Pio XII, personaggi come il Mattatore di Gassman, Il Tenente Sheridan, Mago Zurlì diventano patrimonio collettivo. Nel 1959 gli utenti sono un milione, ma gli spettatori molti di più; le Olimpiadi di Roma sono viste da tutto il Paese come non era mai accaduto prima.
La Rai degli inizi ha una vocazione pedagogica, che si esprime chiaramente in “Telescuola” e “Non è mai troppo tardi”, e domina tutta la programmazione. Ma gli effetti vanno ancora al di là: è stata la tv, per esempio, a dare un contributo fondamentale all’unificazione linguistica italiana che si realizza in questi anni: un’unificazione che non è fatta solo di grammatica e di lessico, ma anche di immaginario, di desideri consumistici (“Carosello” inizia nel 1957), di miti e passatempi condivisi.
Questa unità incomincia a incrinarsi già nel 1961, quando si inaugura la seconda rete Rai. La terza seguirà nel ’79. Alla fine degli anni Sessanta incominciano ad aver peso televisioni straniere in lingua italiana come Capodistria; dal ’71 iniziano a trasmettere le tv locali, che però si sviluppano abbastanza rapidamente in catene e gruppi: Telemilano, la televisione di un quartiere suburbano costruito da Berlusconi, all’inizio degli anni Ottanta diventa il nazionale Canale 5 e nella stessa galassia entrano presto Rete 4 (da Mondadori) e Italia 1 (da Rusconi).
La concorrenza inizia a farsi serrata, già nel 1982 la Rai ha il 63% degli ascolti, i privati arrivano al 30%. Gli ascolti tendono a pareggiarsi, lasciando spazio solo a un pulviscolo di emittenti locali: un duopolio che viene progressivamente insidiato da La7 (nata dalla vecchia TeleMontecarlo nel 2001) e dai canali satellitari di Sky.
Negli ultimi anni il digitale terrestre, la televisione trasmessa o riciclata da Internet erodono profondamente la prevalenza delle vecchie televisioni generaliste. Lo dimostrano gli ascolti che tendono a calare, insidiati dai nuovi media, e a spezzettarsi.
Ma la televisione, anche se resa plurale e piegata alle logiche di una concorrenza per nicchie, è rimasta a lungo la grande piazza condivisa del Paese e in parte lo resta ancora. Ci sono stati altri grandi eventi, dallo sbarco sulla luna ai funerali di Kennedy e di Lady D; c’è stato soprattutto quel grande momento di commozione e di identità collettiva che fu nel 1981 il fallito tentativo di salvare in diretta la vita di Alfredino Rampi, il bimbo imprigionato in un pozzo a Vermicino. Il festival di Sanremo ha mostrato per decenni una vitalità inaspettata. I talk show hanno dato voce più di altri media all’evoluzione (o se si vuole all’involuzione) politica del Paese: se il salotto di Vespa è stato definito la “terza camera”, il palcoscenico del “Costanzo Show” e la piazza di Santoro gli hanno tenuto testa. La tv americana di Mediaset, spesso firmata da Antonio Ricci, a partire da “Drive In” (1983) per arrivare fino a “Striscia la notizia”, ha contagiato non solo i programmi Rai, ma anche il Paese.
L’evoluzione del privato, delle relazioni familiari e sociali, dei comportamenti giovanili e della posizione delle donne è stata testimoniata dalla grande famiglia dei reality show, non solo nella versione dura del “Grande Fratello” e delle successive varianti, ma anche in quella morbida di “Chi l’ha visto” o “C’è posta per te” o dei metashow come “Amici”, “X Factor” e simili.
Insomma, la televisione non è più da tempo unica, ma continua a essere il primo passatempo degli italiani e probabilmente la prima fonte di informazione e di imitazione dei consumi. Sta per compiere sessant’anni, ma non accenna affatto ad andare in pensione.
Ugo Volliper "Il Messaggero"