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Almodovar edifica un'opera complessa, e, grande scultore, ne intaglia gli eccessi melodrammatici. "Gli abbracci spezzati" incastra l'inconscio, sino a dominarlo. E' sottile, lento, ma il veleno ti arriva diritto al cuore. E' gelido, tagliente, senza spina dorsale, eppure ti attanaglia. Non colpisce l'emozione visibile, ma quella che lavora in sottotesto, non appassiona, ma lascia allibiti, quasi persi nel vuoto. E' un'opera di sottrazione. Arriva a sottrarre alla vista, ad accettare il "non-visto" come epilogo di ogni vita, ad accogliere l'idea dell'ignoto. Sceneggiatura di ferro, ma Almodovar riempie di un vuoto abissale il finale, quando diventiamo ciechi di fronte ad una dissolvenza di metacinema, a cui si aggiunge una dissolvenza ad iride di cinema. Cinema del cinema, ipertofria delle citazioni, film dello stesso autore che si sovrappongono, struttura narrativa da far impallidire i più grandi cineasti. Un film che contiene un film che contiene un documentario che contiene uno schermo che contiene una storia vera, realizzata compiutamente nell'opera e a noi visibile nella sua organicità, ma qualcosa è celato. Immagine, forma e sostanza. Un regista che ha perso la vista, un aedo che racconta la sua storia in flashbacks, voce fuori campo. Lo spazio della narrazione si accelera e si aprono porte ampie, infinite, sguardi dal Golfo di Pompei, come in Rossellini, il passato si accavalla al presente, il presente è passato (nella nostra ottica), senza un futuro. L'inizio folgora, una scena di sesso inattesa, la storia pende nello spazio temporale con continue sospensioni. Il montaggio riannoda, congiunge, abbandona a sè stesse le inquadrature per poi vivificarle. Un uomo è tanti uomini, senza scissioni. Penelope Cruz è Magdalene, ma è anche Audrey, Marilyn, ma è anche un simbolo, un'allusione, un rimando mentale. Penelope prorompe con un'interpretazione magnifica, forse la migliore della sua carriera, con "Volver", senza l'accessibilità di una popolana alla Sophia ma con la classicità del noir americano.
Forma: Estetismo puro, una ricerca sopraffina. Il film è forma prima che contenuto. Ogni scelta di macchina è giustificata, ogni inquadratura è l'esternazione di un moto interiore, con perfetta interrelazione tra l'aspetto tematico e quello tecnico.
Oltre a Penelope, di grande intensità è il personaggio di Bianca Portillo, la cui recitazione ha toni tra il dimesso iniziale e l'enfasi finale, in un crescendo interiore che è possibile intravedere, in realtà, già dalla prima sequenza in cui appare. In questo senso le varie vicendevoli soggettive in primo piano tra una giovane donna oggetto sessuale e il suo character sono piuttosto esplicative.
Elemento melodrammatico più in vista, sottolieato dall'uso di alcolici, senza gigionate, con eleganza e partecipazione emotiva.
"Gli abbracci spezzati" è anche un film maschile, un film molto maschile. Il regista non vedente (Lluìs Homar) è un trittico nella stessa persona, alter-ego del regista e duplicazione in sè stesso, tra il regista Matteo e lo sceneggiatore Harry Caine, prima e dopo l'evento. Non c'è una facile metafora psicologica, sottesa comunque, bensì un lavoro di caratterizzazione filmica eccellente, che conduce, fuori da metafore, ad una riconciliazione. Splendida la percezione di un bacio su uno schermo, senza vederlo.
Carlos Leal e Rubèn Ochandiano sono speculari: il padre, un uomo accecato dalla gelosia, il figlio accecato dalla rabbia. Tamar Novas è Diego, un ragazzo che contiene la sua sofferenza interiore, cercando di crearsi una motivazione e di soddisfare i bisogni dell'altro. E' il vero vincente del film. Tra le battute cult, l'iniziale riferimento al figlio di Arthur Miller e la citazione indiretta di Twilight.
"Gli abbracci spezzati" è una furia senza apparente tempesta. Scorgiamo la Cruz alla fine e ci sembra che sia cieca, mentre recita. Il film scava così dentro che altera le nostre percezioni.