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Sofia Coppola, una delle più perspicaci registe moderne, radicalizza lo scontro titanico tra sceneggiatura e immagine. E completa il trittico sulla donna, passando dall’adolescenza incerta e disidratata, come un fiore immerso in una tazza raffinata da the, un crisantemo contorto che si apre nel caldo del mito della pianta, alla maturità indefinita, dolorosa, del tutto autonoma dal condizionamento, e secernendo i fili in una morsa finale, quando si descrive, di immagine e non di parola, un’adolescente e la si rivede, di immagine sbiadita, donna. Non molti hanno notato la sottigliezza metaforica e il percorso ambivalente, non stringente nello stesso esito, ma accomunabile tra i film. E’ in questa prospettiva possibile una lettura psicologica del personaggio Marie Antoinette: dalla teenager senza autonomia (il rapporto di mediazione della famiglia) e responsabilità, alla madre tacciata di responsabilità collettiva, autonoma di fatto dai giochi parentali. La Coppola, come Vas Sant in genere, predilige la prima connotazione, non perdendo le due caratteristiche dei lavori precedenti dello scontro-incontro (in “Lost in translation”, vi è una certa differenza d’età) tra mondo adulto e mondo giovanile. E così Marie Antoinette diventa l’emblema, senza complicazioni profonde, dei teen, completamente immersa in un gioco di filtri preziosi che la assurgono a Delfina, quand’ancora non ha alcuna capacità politica o da futura reggente. La visione storica, che vuole invece l’austriaca accanita sostenitrice della sua casata natale e mediatrice dell’alleanza, non ha ragione d’essere. In molti hanno contestato gli errori storici dell’opera. In realtà, la visione è del tutto astorica e personale. A differenza dalle didascalie di Elizabeth e dei film detti storici, che non hanno nulla di necessariamente veritiero, ma lo spacciano per tale, la Coppola mantiene i nomi reali ma nomina appena una volta la Bastiglia, non propone un finale piano storico e quando descrive eventi esterni lo fa in chiave puramente comprensiva, in modo da conciliare una visione più complessa di un personaggio. Marie Antoinette non è la regina di Francia. E’ il simbolo della fanciullezza, decontestualizzata dal proprio periodo ed inserita nel nostro mondo (tra i vari bloopers, in realtà voluti, c’è l’uso di un paio di Converse che assume un valore incidentale per veicolare il messaggio). E, nell’uso dei costumi superbi e delle musiche alternative al suono dell’epoca (The Strokes, New Order e qualche ruffianeria alla Madonna), è imprescindibile l’aspetto di modernità. Le scelte tecniche si fanno espressione di puro sperimentalismo da blockbuster. Qualche critico ha sottolineato come l’opera sembri un lungo videoclip. Questa opinione può essere accettata in un significato estetico. La comprensione deriva, come detto, dall’immagine, che assume una forma tale da garantire l’identificazione con la giovinezza, non dal dialogo. Non c’è il medium della forma linguistica, sostituita dal suono invadente di un’ottima soundtrack. Da qui, l’utilizzo nella prima fase, ma anche in seguito (il corridoio e la postura di Marie), di sequenze ripetute, cercando di trasmettere il senso di mutevolezza giovanile nel cambiamento continuo di abiti di diverse tonalità, accompagnato da un rigido, invece, uso dei colori scenografici, simbolo di un palazzo, quello di Versailles, che non sa cambiare. L’opera sperimenta, ma copre la propria innovazione con un’immagine accattivante, e si pone in una posizione in bilico all’occhio del pubblico. Kirsten Dunst è realmente bravissima a delineare un personaggio con una comunicazione extra-verbale. Un film sottovalutato.
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