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Il film della simulazione per eccellenza. In molti ne ravvedono l’esperienza amorosa come fulcro. In realtà, l’affetto e la passione, il bacio dilatato, il naso di lui che tocca il viso di lei, il viso di lei che si accascia sulla spalla di lui, la mano di lui che accarezza i capelli di lei, la mano di lei che cinge i fianchi di lui, non sono che espedienti di ordine secondario. Tali gesti, infatti, danno un’impressione di carattere sentimentale solo per due ovvie ragioni: in primis, è il movimento della macchina a cercare i moti di complice tenerezza passionale, e non in modo soggiogante, attraverso i primi piano tesi a scolpire i volti e a focalizzarsi sulle parti sensibili al tocco magnetico, ma in maniera quasi eterea, sebbene le labbra si tocchino con ripetitiva frequenza; in secondo luogo, è la grande recitazione di Grant e della raggiante, leggermente ovale nelle dimensioni della testa, Ingrid Bergman a scatenare il presunto romanticismo. Più che una carica amorosa, affiora un senso asciutto di sensualità pura, mai mitigata, mai in chiaroscuro. La relazione affettiva non è del tutto avvolta nella nebbia, si vedano, per esempio, le preoccupazioni dell’uomo all’invio della donna in una casa di nazisti, nella Rio brasiliana, a lei noti, in qualità di spia. Peccato che la simulazione impedisca di esplicitare tali paure direttamente, dinanzi alla donna. E’ una forma di abbandono, a cui segue la rassegnazione di lei, che, d’altronde, si mostra fredda, in realtà bambina, legata ad un padre che ha amato ma ha rinnegato, quando afferma la sua impotenza a decidere per sé ed accoglie la causa civile prima che la necessità personale. E’ un delegare ad altri una possibilità che è soltanto sua (ripete: “Io lo chiedo a te”). Non è una giustificazione il presunto lato patriottico, legato ad un’esigenza di libertà e quindi antitotalitario, che trova la sua definizione in una telefonata intercetta con il genitore. Hitchcock non bada molto all’aspetto politico, volutamente sullo sfondo e mai di ottica nitida: i nazisti operano i modo malvagio ma non appaiono malvagi, i servizi segreti operano in modo antifascista, ma non necessariamente buono. Ciò che interessa al regista non è l’assoggettamento ad un ideale ma piuttosto come le implicazioni di quel gioco comportino la necessità di una realtà simulata. Non è un caso che il grande esponente nazista sia portato a salvaguardare sé stesso e la sua incolumità, quando scopre che la neo-moglie è una spia americana, piuttosto che l’interesse dell’organizzazione di cui fa parte. Come la madre, genitrice simbiotica, l’uomo in questione abiura la morte. Un esempio di simulazione si vede quando lei comincia a separare la propria missione politica dalla volontà passionale e lui, d’altro canto, nell’evidente impossibilità di vedere la donna congiunta ad un altro uomo, chiede riparo in Spagna, senza proferirne direttamente parola. La stessa malattia che affligge la donna nell’ultimo incontro sulla panchina viene spacciata per una sbronza, e motivo psicologico, non è “compresa” ed affrontata nemmeno dalla diretta interessata, che vive la sua esperienza di annullamento dei sensi quasi negandola a sé stessa. Memorabile la scena della cantina…I battiti del cuore accelerano, senza limiti, e quando sembra che la missione sia riuscita, anche per i due, è evidente una simulazione da parte dello sceneggiatore: la chiave non può non essere riportata indietro immediatamente, senza alcuna preoccupazione. Si beve: whisky, da cui l’allontanamento di lui e il motivo dell’immoralità della donna, e caffè, dal quale ha origine la riconciliazione e il motivo dell’immoralità valoriale dei nazisti. Capolavoro.
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