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La scelta quotidiana è ricaduta sul kolossal-popcorn-movie del 2010. O almeno, sulla pellicola che avrebbe dovuto fare più successo. Ma l'epopea di un videogioco, così come il prequel di un personaggio noto come "Robin Hood", targato Ron Howard, si sono rivelati per motivi diversi due film senza mordente. Un analista potrebbe spiegare facilmente la cosa: "Robin Hood", partito con un certo riscontro, si è trovato di fronte ad un atteggiamento ambiguo da parte della stampa, americana in particolare. D'altronde, realizzare un film che citi un classico del passato come "Il Gladiatore", che io giudico un divertissment senza senso, e metterci la faccia del medesimo attore, che, in quanto ad espressività, non eccelle nella mutevolezza, poteva essere un rischio. "Prince of Persia", prodotto da Jerry Bruckheimer, ha incontrato altre difficoltà, soprattutto logistiche e di presentazione, tardiva, al pubblico. Il produttore cerca di inaugurare una nuova saga, allontanando lo spauracchio del quarto capitolo dei "pirati dei Caraibi", alla prova del nove quest'anno, dopo un terzo capitolo fiacco e poco amato dagli ammiratori di Jack Sparrow. D'altronde, il cambiamento del cast dei "Pirati", con l'abbandono di Keira Knightley e di Orlando Bloom, e l'ingresso di Penelope Cruz, a cui si aggiunga un regista tanto kitsch quanto inventivo ma poco redditizio come Bob Marshal, fanno intendere che Bruckheimer, consapevole del rischio del suo vecchio franchise, ha voluto, con questo nuovo soggetto tratto dall'omonimo videogioco da sviluppare in episodi successivi, creare un'alternativa seria e spettacolare che faccia da contrappunto speculare ai pirati. Da qui la scelta di un'ambientazione atipica nel nostro cinema. Dopo aver recuperato e trasfigurato il mondo dei corsari e degli uomini di mare, il geniale bussinessman Jerry sceglie l'esoticismo e prende Lawrence d'Arabia a modello, sfregandosi le mani, a cui aggiunge una certa fedeltà e un'ironia molto fresca e infantile, rispetto all'omonimo videogioco anni '90. I risultati non hanno premiato un prodotto con un budget elevatissimo e il dubbio sulla continuazione della serie è più che tangibile. In realtà, con tutti i pregiudizi di partenza, e dopo un parossistico e squilibrato inizio, il film è talmente ben oleato che immerge lo spettatore in uno stato di interesse continuo, è vorticoso come il suo montaggio, è vivo, come i suoi personaggi, che rinascono sullo schermo dai clichè del passato, premendo il pulsante di un pugnale dorato che sembra provenire dalla "Cina giocattoli". E' un film "strafumato", in cui il dramma diventa commedia, e la commedia si spalanca al comico vero e proprio. In questo senso, Alfred Molina ha un ruolo molto efficace, ma anche i dissidi tra Gemma Arterton e Jake Gyllenhall sono esplosivi. Kingsley è un grande attore, ma la semplificazione dei ruoli in un film del genere lo rende un personaggio, una pedina, piuttosto facile da comprendere. Mi preme sottolineare l'assoluta impersonalità della regia. Mike Newell è l'uomo giusto per un compito del genere, perchè non mette al centro la bravura e la bellezza stilistica, ma cerca di stare al passo con la storia, con il singolo frammento. In questo modo le sue inquadrature, pur non impeccabili, sono completamente "giustificate" dal taglio commerciale dell'opera. Gli aspetti tecnici, non eccelsi, sono funzionali alla tipologia. Ne deriva una certa continuità di elementi che contribuiscono a dare organicità al prodotto.
Conclusione
Potrei evitare di avere troppi paraocchi carichi di pregiudizi. Vedere per Giudicare, e non farlo a priori.