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Creato il 23 ottobre 2011 da Albertogallo

MILDRED PIERCE

California, gli anni della Grande Depressione. Mildred Pierce è una mamma, una disoccupata, una donna in carriera, una moglie divorziata, un’amica, una persona disperata, una manager di successo, un’amante appassionata. Un personaggio moderno, insomma, che incarna nel bene e nel male ciò che siamo o eravamo soliti chiamare “il sogno americano”.

Tornano in tutto il loro splendore i potenti mezzi della Hbo (Boardwalk empire, Bored to death…) per una miniserie in cinque episodi che fa dello sfarzo nella messa in scena, dell’eleganza e del lento, sontuoso respiro i suoi grandi punti di forza. I nomi, innanzitutto: il regista di Mildred Pierce è Todd Haynes, che dopo il capolavoro cinematografico I’m not there, su Bob Dylan, torna alla magnificenza estetica che aveva caratterizzato il suo film del 2002 Far from heaven. Protagonista è Kate Winslet, perfetta come sempre, al cui fianco stanno attori del calibro di Guy Pearce e Evan Rachel Wood. Le musiche, bellissime e toccanti, sono di Carter Burwell, già artefice di score cinematografici per i fratelli Coen (L’uomo che non c’era, Non è un paese per vecchi, A serious man) e per Spike Jonze (Essere John Malkovich, Adaptation, Nel paese delle creature selvagge).

Un capolavoro, quindi? Non proprio, per quanto mi riguarda. Innanzitutto perché in questa miniserie c’è un evidente scarto tra valore estetico e valore narrativo. Detto in parole povere, ed esagerando un po’: Mildred Pierce è una soap opera all’ennesima potenza, un melodramma vecchio stile pieno di lacrime, amori impossibili e traditi, cadute (morali, economiche) e relative resurrezioni. Tutto questo, c’è da dire, è espresso in modo impeccabile, con un’ottima prova di tutto il cast, con ambienti e scenografie meravigliosi e con una regia virtuosa, ma rimane il fatto che si tratta di un prodotto di maniera, di un fotoromanzo confezionato alla grande – e pensare che il romanzo omonimo da cui è tratto è di James M. Cain, le cui opere hanno ispirato film epocali come Ossessione di Luchino Visconti e La fiamma del peccato di Billy Wilder. Un altro elemento che mi ha fatto un po’ storcere il naso durante la visione di Mildred Pierce è la sua sostanziale mancanza di coraggio: la pellicola comincia bene, benissimo, con la descrizione perfetta della vertiginosa caduta sociale della protagonista, che da signora benestante si trova improvvisamente, dopo l’abbandono del marito, a dover fare i conti con una realtà economicamente disastrosa e lavori sempre più umilianti. Si tratta di scene estremamente attuali: l’angoscia di Mildred, costretta per sopravvivere ad accettare una condizione sociale che non è la sua, è l’angoscia di milioni di giovani del XXI secolo, figli mai cresciuti di una borghesia in caduta libera. Anche il quinto e ultimo episodio della miniserie è molto azzeccato, dal momento che mostra in tutta la sua crudeltà, in tutto il suo squallore, il rapporto madre-figlia che è sì al centro di tutte le puntate, ma che solo nel finale esplode emotivamente come esploderebbe nella vita reale (la figura di madre vittima e comprensiva nonostante tutto è credibile solo fino a un certo punto). Tra questi primo e ultimo episodio, però, il miele è tanto, così come tanti sono i momenti che sembrano girare un po’ a vuoto, laddove invece a mancare è il coraggio di mostrare situazioni (sociali ed emotive) veramente estreme. Forse se Mildred Pierce fosse stato ridotto, asciugato, da cinque a tre episodi ne avrebbe guadagnato in intensità emotiva, perdendo quegli elementi beautifuleschi e quella mancanza di mordente che invece qua e là lo caratterizzano.

Si tratta in ogni caso di un prodotto di alto livello, un po’ troppo strappalacrime per i miei gusti ma sicuramente non fallimentare: se mai la televisione italiana arrivasse a confezionare qualcosa di simile non si potrebbe che gridare al miracolo.

Alberto Gallo



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