Twargha, a pochi chilometri dalla città martire di Misurata, è una città fantasma.
O meglio non esiste più.
E' quanto accade ovunque, non solo in Libia ovviamente(la ex-Jugoslavia docet), dopo anni di feroce dittatura e quando poi, all' improvviso, ci si ritrova ad assaporare la libertà. Una libertà che quasi certamente non si sa gestire.
Anche se poi è proprio questa ambigua libertà ,di cui abbiamo notizie dalla Libia, una libertà fondata comunque su interessi estranei al popolo libico( petrolio e gas da chi a chi stavolta?) ,quella che non ci piace per niente.
Ed è tutta ancora da essere chiarita nei fatti, vista poi la scia lunghissima di sangue e i numerosi morti innocenti ,che ha prodotto e una conclusione che non arriva ancora.
Ma torniamo a Tawargha, la città che non c'è più, di cui Lorenzo Cremonesi, ieri, ha ampiamente riferito in un interessantissimo reportage sul Corriere della Sera.
Premettiamo, come fa notare l'autore del reportage, che Twargha è ,o meglio era, una citta abitata in prevalenza da una popolazione di colore, perché proveniente dall'Africa subsahariana in cerca di lavoro nella più agiata e promettente Libia del colonnello Gheddafi di alcuni decenni fa.
Detto questo è chiaro che molti giovani africani, che sono cresciuti nell'era di Gheddafi, non hanno trovato nulla di anomalo, quando è stato il momento, nello schierarsi dalla parte del rais, che ha dato pane e lavoro , in passato, ai loro genitori.
E sono questi invece coloro che i ribelli definiscono appunto "mercenari".
Io direi forse meglio... i"mercenari della povertà!".
Basterebbe osservare le loro povere suppellettili dai muri squarciati e incediati delle case.
Gli animali da cortile, polli e conigli, razziati in un secondo tempo dai rivoluzionari.
Ora che si dovrebbe essere alle ultime battutte di una difficile quanto terribile guerra civile, durata anche troppo, si è aperta, proprio a Twargha e dintorni, addirittura la caccia al "negro".
E' la cosiddetta pulizia etnica, secondo i vincitori, gli uomini del Consiglio nazionale di transizione.
Cremonesi, che racconta dalle colonne del suo giornale, ci dà un'istantanea efficace e dettagliata della complicata situazione.
Nonostante le rassicurazioni contro ogni politica razzista e in difesa delle minoranze nere in Libia -scrive l'inviato del Corriere della Sera - fornite a più riprese alla comunità internazionale dai dirigenti della rivoluzione, a Twargha si sta portando a termine del tutto indisturbati ciò che era iniziato ad agosto.I muri delle case devastate sono imbrattati di slogan freschi contro i "murtazaka", come qui chiamano i mercenari pagati dalla dittatura di Gheddafi.Sono firmati in certi casi dalle "brigate per la punizione degli schiavi neri" e trasudano il razzismo più virulento.
In verità - prosegue Cremonesi- molti degli abitanti della regione di Twargha sono discendenti delle vittime delle razzie a caccia di schiavi organizzata in larga scala dai mercanti arabi della costa per secoli sino alla metà dell'Ottocento nel cuore dell'Africa subsahariana.Libici a tutti gli effetti, figli di libici, sono ora tra le vittime più deboli del caos e dell'incertezze in cui è scivolato il Paese.Nessuno conosce ancora le cifre dei loro morti e feriti.Le nuove autorità di Tripoli non rendono noti i numeri dei prigionieri.E , quando lo fanno, sono spesso contradditori e impossibili da verificare.
Riflettiamo.
Era questo che si voleva quando tutto è iniziato, mesi fa, nell'entusiasmo generale dell'Occidente, pronto a centrare , e possibilmente in tempi brevi, la sconfitta del "tiranno"?
Certamente no.
E questo a a dimostrazione che tutte le guerre, quali che che siano le motivazioni e gli obiettivi, sono guerre sporche, perchè ambigue.
Sempre.
Nessuna eccezione.
E il prezzo più alto ovviamente lo paga la gente comune se non, come in questo caso, costruitosi un nemico ad arte, persino le minoranze presenti sul territorio.
Grande squallore, insomma, dinanzi all'ingordigia e alla superficialità umana.
Distruggere per ricostruire.
E comunque dare la"morte".
E la Storia passata o recente che sia, che non insegna mai niente alle nuove e giovani generazioni.
A cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)