Twende Berlin (Farasi Flani, 2012)

Creato il 08 novembre 2012 da Salcapolupo @recensionihc
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Un viaggio documentato tra Africa e Germania che mostra la cannibalizzazione dell’industrialismo, e suggerisce i problemi delle metropoli odierne dovuti al soffocamento progressivo degli spazi pubblici. Il tutto accompagnato dalla musica degli Ukoo Flani…In breve.  Un singolare viaggio metropolitano in stile documentaristico e dal forte significato simbolico, alla ricerca del significato e della critica al fenomeno della gentrification. Pone i presupposti per una storia di quelle che rimangono impresse, ma la forma scelta è quella di un lungo videoclip reggae-hip hop, e questo finisce per essere il punto di forza e, paradossalmente, la debolezza espressiva principale. Il messaggio finale, per quanto intriso di logica sinceramente rivoluzionaria, mostra un problema senza riuscire ad far intravedere (purtroppo) una reale soluzione.

Nel 1970, in Kenya,  il progresso imprigiona Upendo Hero – “l’eroe dell’amore”, rappresentato da un uomo con la testa a forma di cuore – all’interno di un centro commerciale, dal quale il protagonista riesce a fuggire solo 37 anni dopo. Fin dai primi fotogrammi si intuisce il messaggio socialmente – oltre che politicamente – impegnato che sottende “Twende Berlin“, il nuovo film distribuito dalla Manhattan Film: un lavoro dal taglio visivo da mockumentary che testimonia il cammino compiuto dagli UKOO FLANI, una band di Mombasa (Kenia), dal proprio paese verso Berlino. Lo scopo della “missione” è quello di indagare primariamente sul furto degli spazi pubblici da parte delle multinazionali, il che ha contribuito alla forte sfiducia, disumanizzazione e spersonalizzazione delle grandi metropoli. La tesi portata avanti da questo film-documentario, di fatto, è che il capitalismo stesso ha creato le condizioni per annullare totalmente gli spazi a disposizione delle persone, obbligandoli a logiche soffocanti, non umane e dominate interamente dal profitto. Tale fenomeno, noto in sociologia come gentrification, è tipico delle periferie, dei centri storici e dei quartieri degradati: per questi ultimi il restauro ed il miglioramento urbano possiedono come “effetto collaterale” il fatto che i nuovi abitanti (più abbienti) tendano a sbattere fuori i vecchi, che – molto semplicemente – non possono più permettersi di risiedervi. È l’incubo reale di una massa di sfrattati/sfruttati, oltre che quello dell’impiegato metropolitano medio, sottoposto a turni massacranti per uno stipendio da fame per poi rinchiudersi in appartamenti asettici, tutti uguali e senza vie di uscite. Parrebbe quasi di intravedere le dinamiche sinistre di alcuni lavori di Tsukamoto (che ha dipinto spesso, nei suoi film, in chiave “incubo industriale” le metropoli giapponesi), se non fosse che il tono di Twende Berlin è invece leggero, facile da guardare – se non fosse per i sottotitoli, che per alcuni spettatori italiani potranno risultare “faticosi” – e allegramente “contro” questo genere di imposizioni oppressive. Essendo il film accompagnato da una corposissima colonna sonora di matrice hip-hop / reggae, non poteva che richiamare le speranze utopiche di tale movimento culturale musicale: e infatti, in ogni luogo in cui si recano i nostri protagonisti, diventa canonica la composizione di un pezzo o anche una semplice jam-session che racconta, a suo modo, una parte della storia. Il tutto serve a formare un collage urbano di spessore, che descrive singoli gruppi di artisti e/o attivisti alle prese con le assurdità della burocrazia e delle volontà di chi vorrebbe costruire enormi, asettici e freddi palazzi ovunque; se servisse dirlo, si lotta nel disperato (e sentito) tentativo di cambiare le regole di un mondo impazzito. Seppur con qualche difetto, quindi, riscontrabile in termini di qualche concessione di troppo al pensiero (ed annessa retorica) anti-capitalistica e no-global, e con uno sguardo tanto sincero quanto ingenuo a favore dell’”amore universale”, “Twende Berlin” rappresenta un film di discreta fattura che si lascia guardare piacevolmente, senza mai cedere troppo il passo ai toni cupi (nonostante l’argomento di fondo lo sia), e presentando – oltre ad una colonna sonora che farà la gioia degli amanti del genere, e probabilmente di pochissimi altri – un lavoro con un montaggio originale, serrato, suggestivo e perennemente intervallato dalle trovate sceniche di Upendo Heroe. Un lavoro che affronta una tematica importante, con tutti i limiti di un film di questo tipo, e che prova a sensibilizzare su un problema serio utilizzando il linguaggio “leggero” di un genere musicale dai connotati molto precisi: se questo sia un sostanziale limite o una trovata davvero universalistica, sarà il pubblico a deciderlo. Personalmente ho trovato troppo corposa la parte musicale rispetto al resto, ed avrei preferito qualche approfondimento più “di parola”: ad ogni modo la (ri)scoperta dei luoghi dedicati all’arte, alla cultura ed alle manifestazioni “di strada” dei vari performer è molto interessante, e si presta certamente ad ulteriori approfondimenti e dibattiti. Proposto al cinema a partire dal 23 novembre 2012.

“Viviamo in città sempre più massificate, asservite ai bisogni di multinazionali fameliche. I nostri spazi si riducono e la possibilità di interagire umanamente attraverso musica e sentimenti, ingrigiscono come le pareti di un’anonima periferia industriale”


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