Twin Visions (Pt.5)

Creato il 13 novembre 2014 da Theobsidianmirror
La prima parte si trova qui.

Jerome Witkin, Jesus (A disbeliever's vision)

In questa rivisitazione delle varie facce dell'Olocausto non possono mancare rappresentazioni di Cristo, l'agnello sacrificale per eccellenza, la vittima predestinata: la vittima ebrea. È il caso di “Jesus (A disbeliever's vision)”, in cui Gesù è calato in un paesaggio urbano decadente, violento; se ne sta in piedi, intento a leggere qualcosa, mentre sottili e inquietanti segnali di minaccia lo circondano (un uomo nell’atto di gettare qualcosa verso di lui, la motosega poggiata per terra, perfino il muro scrostato e pericolante). Nel pannello di destra ci sono un tavolo, quelli che sembrano attrezzi da carpentiere, pezzi di legno a forma di croce, e di nuovo Gesù, questa volta ritratto senza braccia: un Gesù inerme, ma con un serafico sorriso sul viso, forse perché sullo sfondo una scala dorata sembra indicare una possibile via di fuga per lui e, con lui, per tutta l’umanità? Curiosamente, anche in questo dipinto è presente uno dei leitmotiv di Witkin, la valigia.
“Taken” è dedicato agli avvenimenti dell'11 settembre 2001. Nel primo pannello, una donna in metropolitana viene molestata da un uomo che indossa una maschera: l'esempio del decadimento morale della società, paradigma di quel qualcosa di ben più terribile che sta accadendo là fuori e si intravvede dal finestrino. Nel secondo pannello un uomo si fruga nelle tasche, alla ricerca di qualcosa (il portafoglio o altro) che ha perso o che gli hanno rubato; in basso a destra si vede il suo braccio artificiale; l'uomo sembra inconsapevole della tragedia che si sta verificando a pochi passi da sé e del pericolo incombente; infatti, sopra di lui si vede il corpo di una donna con il braccio e la gola recisi da pezzi di vetro, mentre le fiamme occupano la parte superiore della scena. Nel terzo pannello vigili del fuoco scavano tra le macerie informi e fumanti dell'edificio crollato, un ammasso di corpi, cemento e metallo, e cercano di farsi strada al suo interno. Infine, nel quarto e ultimo pannello la moglie di uno dei pompieri riceve l'uniforme del marito “caduto in servizio” da degli ufficiali di polizia. Questo dipinto ci mostra la morte, ma anche il peccato. Sembra affermare la responsabilità morale che l'uomo ha nei confronti dei propri simili: si soffre spesso per qualcosa che qualcuno ha fatto (o non ha fatto).

Jerome Witkin, Taken

È esattamente lo stesso concetto alla base di “Three men in a ruin”, un trittico in cui la connessione tra le varie parti è ideologica e stilistica, se non proprio narrativa, e in cui la giustapposizione dei pannelli amplifica l'effetto drammatico. Tutti i protagonisti, in “Three men in a ruin”, sono dei perdenti, o meglio delle vittime, ritratti in momenti della loro vita che, apparentemente, non hanno punti in comune: un tossicodipendente, il prigioniero di un campo di concentramento, un artista. La più famosa è forse la seconda parte, “A jew in a ruin”, con il suo surreale scenario da apocalisse al cui centro c'è un uomo con la divisa da cuoco che sta svanendo progressivamente dalle ginocchia in giù. Il simbolismo qui non è di immediata comprensione, ma quell'uomo incarna il famigerato dottor Mengele che viene disintegrato dal suo “strumento di lavoro”, quel forno crematorio sulla destra, a sua volta incarnato dal volto gigante di donna con le labbra rosse spalancate in un muto grido: sembra che la terra stessa urli di fronte alle atrocità e alla distruzione di cui è stata testimone.
Il ricorrere di tematiche religiose e morali nelle sue opere fa inevitabilmente sorgere la domanda se Jerome sia o meno un pittore religioso. Lo è, ed è stato proprio lui a dichiarare che vorrebbe essere ricordato come tale perché considera il suo talento un dono di Dio, un dono che utilizza per interpretare la realtà che ci circonda. I suoi dipinti nascono per mostrare il forte legame tra Dio e il mondo, legame che non viene meno nemmeno nell'ora del dolore e che è simboleggiato dalla figura di Cristo, che contiene in sé l'umano e il divino.

Jerome Witkin, A jew in a ruin

Jerome conosce bene il dolore, perché la perdita del padre non è stata l’unico l’evento luttuoso della sua vita. Andrew, il figlio avuto dalla sua terza moglie, perì a 16 anni per le complicazioni sorte in seguito ad un trapianto di midollo osseo. Era stato malato tutta la vita (era affetto da neutropenia congenita, una rara malattia del sangue) e un trapianto di midollo osseo per qualche tempo sembrò ridargli qualche speranza, ma il destino scelse diversamente. Fu una tragedia, una tragedia privata ma pur sempre una tragedia. C’è chi non sopravvive alla morte di un figlio, e se lo fa muore dentro, ma Jerome non si ritiene sconfitto dalla vita anche se la sfortuna negli affetti sembra perseguitarlo. Vien da chiedersi da cosa derivi tanta forza e la risposta è proprio lì davanti ai nostri occhi, nei suoi dipinti e nel sentimento che v’infonde: è l’amore, che continua a essere il centro del suo universo. L’amore e la fede. Quella fede senza la quale probabilmente non sarebbe riuscito a dare un senso alla morte di suo padre, né a quella di suo figlio. I think that’s what life is—you’re not sure what’s going to happen, you make the best of what cards are dealt to you, and that’s our trip.
La sofferenza accomuna tutti gli esseri umani e umano è mostrare la sofferenza e come le persone la affrontino e talvolta ne traggano un insegnamento e uno stimolo ad andare avanti, anche se questo significa condannare la propria anima al Purgatorio. Eh sì, se Joel-Peter Witkin sa portarci con sé all'inferno, suo fratello Jerome è un viatico per il Purgatorio. I always think of Joey’s work—as you watch his work—and you join him in hell. And my work, you probably are more in purgatory. I think our life is purgatory. Entrambi sono viaggi che potrebbero toccarci in sorte, prima o poi.

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