"Tyrannosaur"

Creato il 26 gennaio 2012 da Elio

TYRANNOSAUR (2011)
Regista: Paddy Considine
Attori: Peter Mullan, Olivia Colman, Eddie Marsan
Paese: UK

Più volte si è scritto in questo blog, finanche alla ridondanza, di un nuovo cinema britannico capace di mostrare una vitalità inesauribile. Sforna e centra pellicole del tutto simili nello stile, seppur innegabilmente personali, ad un ritmo martellante, tanto che tra di essi di capolavori se ne contano più d'uno. Si è scritto del loro essere potenti, del loro stile più o meno ricercato ma sempre brutalmente diretto, non essendo tuttavia mai spettacolare. Si è scritto del loro essere viscerali. “Tyrannosaur” può piacere, può al contrario non convincere fino in fondo, certo è che conferisce a quel “viscerale” un peso se possibile ancora maggiore. L'esordio alla regia dell'attore reso famoso da Shane Meadows, e che a quest'ultimo ha però con le sue interpretazioni abbondantemente restituito il favore, è praticamente solo cuore. Non che non possa dirsi riuscito sotto gli altri aspetti che interessano la costruzione di un film, ma quella poltiglia di cuore, rabbia e asfissia vomitata sistematicamente dalla pellicola tende a far passare tutto il resto in secondo piano. 

Sarebbe interessante individuare con maggior precisione quali siano i fattori che stanno tratteggiando del Regno Unito un volto simile; tale da spingere più di un regista a mostrare il lato ferito dei suoi protagonisti e sullo stesso ad insistere. Il Joseph (Peter Mullan) di Considine non è diverso. È un uomo che sembra ormai andato a male, esteticamente quanto interiormente. Beve fino a perdere il controllo, e se non beve il controllo lo perde comunque in altra maniera. Oltre al suo cane non ha nessuno, non più. Un giorno come un altro, in preda ad una disperazione dalla quale non prova neanche più a fuggire, si nasconde in un negozio, quello di Hannah.
Affinché sia chiaro immediatamente chi possa essere Joseph, quale sia il suo inferno e quanto possa risultare maleodorante, il regista nel giro di appena qualche sequenza lo inquadra all'esterno di un bar, ubriaco e delirante; il cane non si muove, o comunque non come nei suoi deliri vorrebbe che si muovesse, si sfoga su di lui, lo prende a calci, gli rompe le costole e lo uccide. Difficile pensare che questa del cane sia una una scelta come un'altra; è infatti l'animale più fedele, quello che resta al tuo fianco in ogni caso, l'unico probabilmente che non ha mai fatto da soggetto al verbo “abbandonare”. Il protagonista, ciononostante, gli riserva quel trattamento. Allontana nel peggiore dei modi l'unica cosa che ancora era capace di stargli affianco. Joseph, del resto, ferisce e allontana chiunque, anche se stesso. È ridotto a un cumulo di macerie ardenti, vuole bruciare qualsiasi cosa gli capiti a tiro, vive ormai da anni in cattività. È un essere umano detestabile, che si nasconde impaurito quando il pericolo lo guarda in faccia e lo assale con antitetica ferocia non appena quello gli volta le spalle. Si dispera per se stesso, cerca conforto, sembra pentito, ma qualche ora dopo ricomincia. 

Considine inquadra anche tutto il resto, ciò che c'è intorno a Joseph. E l'aria che si respira, lì, non è meno pesante. È una difficoltà reale – sociale ed economica – che diviene un male esistenziale al quale chi abita zone simili a quella in cui è ambientata la pellicola non riesce a reagire. Lo accetta con rassegnazione e da esso si lascia plasmare e sfinire. Il regista britannico, tuttavia, alza il tiro. Il male di cui parla non è confinato ad una zona, o ad una qualche appartenenza sociale. Attraverso Hannah, infatti, “la voce alta e forte” della pellicola - come l'ha definita lo stesso Considine – diviene anche quella di uno status sociale che sembra immune al problema solo in apparenza e solo perché tiene il suo malessere, per quanto possibile, all'interno delle proprie case. Ma è sufficiente una sequenza, una soltanto, a dimostrare che quel malessere è uno e unico: espressioni differenti, ma stessa potenza distruttiva. Si annida nelle crepe di un umanità che zoppica vistosamente e che non reagisce, anche se potrebbe farlo, anche se potrebbe almeno provarci.“Tyrannousaur”, non a caso, scava in continuazione alla ricerca di un'umanità che per quanto nascosta non può svanire. La cerca sistematicamente in Joseph, vuole accostarla a quel suo essere sgradevole, vuole renderla una spinta verso la reazione. Lo fa già nella scena iniziale sopra descritta: la violenza è seguita dal senso di colpa di un uomo distrutto che riporta a casa un cane morente, il suo. Inquadra quindi quella di Hannah, il cui inferno non ha nulla da “invidiare” a quello di Joseph. Anche lei non reagisce, anche lei si lascia logorare, ma la sua di umanità non va cercata, è palese, tanto da risvegliare lentamente anche quella da tempo sopita di Joseph. Disperazione che aiuta altra disperazione e che a sua volta si lascia aiutare.
Di viali illuminati dal sole e alberi in fiore su cui camminare abbracciati e suggellare la propria rinascita in “Tyrannosaur”, però, non ce ne sono. Il cambiamento qui è doloroso, fa più male di quanto visto prima e i sentimenti tra i due non sono neanche lontanamente sufficienti a renderlo concreto. Il sacrificio richiesto ad entrambi è enorme: è nel volto insanguinato di un Joseph che realizza di poter decidere che può bastare; è nel volto di una Hannah completamente distrutta e nuda al cospetto di se stessa; è nella consapevolezza di aver fatto finalmente qualcosa, giusto o sbagliato che sia: "They all think it, but I do it - that's the difference between you and me and the rest of the world".

Peter Mullan sembra assorbire il personaggio con tutte le sue storture e i suoi dolori – forse perché lui per primo non ha il passato più roseo della storia – al punto di offrire un'interpretazione così intensa e vibrante che la si può solo ammirare in un rispettoso silenzio. Lo stesso andrebbe fatto con l'interpretazione di Olivia Colman, di cui anche solo una parentesi, quella descritta qualche riga più sopra, basterebbe per almeno altre cinque pellicole. E infine Considine, che si mette per la prima volta dietro una macchina da presa e si comporta con un regista dall'esperienza decennale. La sua è una regia calibrata, semplice e diretta, illuminata da una fotografia che rende tanto il gelo quanto il calore di un racconto che ricalca i lineamenti di uno stile cinematografico del quale “Tyrannosaur” entra di diritto a far parte.

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