E non se ne vogliono andare!,
lamentava un bel film di Giorgio Capitani del 1988. Ha ragione Carlo Lucarelli quando afferma che “la vera vita del personaggio non è come la pensi tu nella tua testa: è come il personaggio vive dentro le parole, dentro la storia”? Dobbiamo credere che nel processo creativo arriva sempre il momento in cui anche il personaggio più malleabile “prende un’altra piega, decide lui quel che farà”? “Arrivi in fondo e ti sei fatto raccontare la storia dal tuo personaggio”, ammette Lucarelli in un’intervista pubblicata sul portale Rai Educational “Scrittori per un anno”.
Ma è davvero così?
Che rapporto intercorre fra un autore e i suoi personaggi? Chi scrive è un dio onnipotente o si perde nell’illusione – del tutto legittima ma anche del tutto errata – di poter comandare le sorti dei propri “figli di carta”? Lucarelli descrive i personaggi letterari come tiranni capricciosi assai poco inclini ad accettare un’eventuale uscita di scena; essi “sono così più forti degli scrittori”, avverte il noirista, che rifiutano l’idea di morire persino quando in calce alla loro vicenda è già stata scritta la parola “fine”.
Il discorso, valido per qualsiasi personaggio di fantasia, si attaglia a maggior ragione ai cosiddetti protagonisti seriali. Se è vero che i lettori tendono ad affezionarsi ai personaggi fissi più riusciti e che, in molteplici casi, l’affermazione presso il grande pubblico è legata a doppio filo alla parabola di tali personaggi (Fred Vargas avrebbe conquistato la ribalta senza l’ausilio del suo irresistibile “spalatore di nuvole” – lo svagato commissario Adamsberg – e del suo squinternato entourage parigino? Andrea Camilleri avrebbe raggiunto le vette più alte della popolarità in Italia e all’estero se non avesse dato vita al pittoresco commissariato di Vigàta?), è altresì innegabile che il già di per sé delicato rapporto fra scrittore e protagonista sia suscettibile di trasformarsi in una liaison dangereuse che spesso coinvolge in maniera attiva anche il lettore.
E’ (forse) azzardato parlare di relazioni “mafiose” tra protagonisti e fruitori di un prodotto letterario; le affermazioni di Lucarelli, tuttavia, trovano ampio riscontro nella letteratura di genere e segnatamente nella letteratura poliziesca: da Sherlock Holmes in avanti, del resto, l’investigatore è il personaggio seriale per eccellenza.
Luca Zingaretti nei panni del Commissario Montalbano
Lo stesso Camilleri rientra nel novero degli autori “tenuti in ostaggio” da una fortunata e ingombrante progenie letteraria. “Montalbano è un serial killer di eventuali altri personaggi” ebbe a dichiarare alcuni anni or sono. Invadente, per giunta: “Mentre stai pensando a un’altra cosa, arriva e dice: tu devi scrivere solo di me. … (o)gni tanto gli scrivo un racconto per tenerlo buono e permettermi di continuare a scrivere altro”. Tuttavia, pur avendo accarezzato a più riprese l’idea di sopprimere il buon commissario, il giallista agrigentino non ha ceduto sino in fondo alla tentazione. Memore, forse, di quel che è accaduto al collega spagnolo Manuel Vásquez Montalbán, il quale fece appena in tempo a mandare in pensione il suo detective buongustaio – a cos’altro potrebbe alludere il donchisciottesco giro del mondo che chiude L’uomo della mia vita (2000), ultimo capitolo della saga di Pepe Carvalho, se non a un pre-pensionamento forzato, a un esausto salpare verso il nulla? – e venne stroncato da un infarto a soli sessantaquattro anni, nell’aeroporto di Bangkok.
Superstizioni infantili, si potrebbe pensare.
Eppure.
L’intraprendenza del commissario Montalbano e del vanesio “collega” d’oltralpe, tuttavia, non ha mai fatto sì che i rispettivi autori fossero sopraffatti dalla personalità delle proprie creature. Altri scrittori, per contro, pur ingaggiando strenue – e talvolta sanguinose – battaglie, sono stati letteralmente “fagocitati” dai personaggi scaturiti dalla loro penna. Ne sa qualcosa Loriano Macchiavelli, talentuoso romanziere che si è visto costretto a fracassare la testa al sergente Sarti Antonio, il questurino di teatrale e televisiva fortuna da lui creato nel 1974, perché “non lo sopportavo più, perché sono riusciti a farmelo odiare”. “Possibile che Loriano Macchiavelli sia importante non in sé e per sé ma nella misura in cui ha di fianco Sarti Antonio?” si domanda e ci domanda in una recente intervista; quando il personaggio diventa più importante dello scrittore, lo scrittore “sviluppa una sorta di grettezza, un malanimo”. Macchiavelli si sbarazza così dell’ingrata creatura in Stop per Sarti Antonio (1987), ma è il delitto più imperfetto che si possa immaginare: il poliziotto “era talmente vivo che non è bastato ucciderlo”… A nulla sono valsi i pur pregevoli polizieschi con l’archivista Poli o la trilogia pubblicata con lo pseudonimo di Jules Quicher: i lettori non hanno fatto altro che implorare il ritorno di Sarti Antonio. “E l’ho ripreso”, conclude il nostro con un sorriso rassegnato.
Sir Arthur Conan Doyle, “papà” di Sherlock Holmes
Il caso più emblematico, tuttavia, è legato al mito intramontabile di colui che sarebbe diventato il più grande investigatore di tutti i tempi. Sir Arthur Conan Doyle, medico e giornalista scozzese appassionato di spiritismo, divenne un caso letterario quando pubblicò i primi racconti polizieschi incentrati sulla figura di Sherlock Holmes. Il “consulente investigativo” dal naso aquilino e le incredibili doti trasformiste venne accolto con un favore che rimarrà celebre nella storia della narrativa poliziesca, e costrinse il povero Sir Arthur a vivere nel suo cono d’ombra: alzi la mano chi ricordava il nome del “papà” del formidabile detective residente al 221B di Baker Street! Di quest’ultimo esiste per contro una letteratura apocrifa pressoché sterminata, per non tacere del museo che ne raccoglie i leggendari cimeli. Lo stesso Conan Doyle dovette subodorare il pericolo visto e considerato che, dopo “soli” sei anni di proficua convivenza, decise di uccidere la gallina dalle uova d’oro. “Ho da conservare le energie per qualcosa di meglio”, si era sfogato in una lettera alla madre, “anche se questo significherà seppellire con lui il mio portafoglio”.
Detto, fatto: nel racconto intitolato L’ultima avventura, Holmes precipita dalle Alpi svizzere e muore avvinghiato al professor Moriarty, il suo più acerrimo nemico. “Ero fermamente deciso … di far sparire Holmes”, scrive Sir Arthur nella prefazione al Taccuino di Sherlock Holmes (1927), “poiché non era giusto incanalare tutte le mie energie in un’unica direzione. Quella figura pallida, dinoccolata, dai lineamenti precisi, stava appropriandosi di una parte troppo grande della mia fantasia creativa”. La reazione negativa del pubblico lo indusse a pubblicare lo splendido romanzo breve Il mastino dei Baskerville (1902), ambientato in un’epoca precedente alla morte di Sherlock Holmes; l’espediente letterario, tuttavia, non fece che accrescere l’insoddisfazione dei lettori più intransigenti. E dal momento che le cascate di Reichenbach non avevano restituito alcun cadavere e “nessun coroner aveva effettuato un’autopsia”, non fu tecnicamente difficile riportare in vita l’eroe in un racconto - L’avventura della casa vuota - che costituisce l’esempio più fulgido di resa dello scrittore di fronte alla potenza di un suo personaggio.
Se Holmes non fosse mai esistito non avrei potuto far di più; forse, ha solo costituito un piccolo ostacolo al riconoscimento delle mie opere letterarie più serie.
Vi pare poco?
Simona Tassara