UFG Book Club: I Miserabili (tappa II–#3)

Creato il 20 novembre 2013 da Camilla P @CaPs_Mind

Buongiorno, cari lettori!

Eccoci di nuovo qui, con il post dedicato alla seconda tappa del gruppo di lettura. Le emozioni che mi sta dando la rilettura di questo libro sono davvero intense e sono sempre più convinta di aver fatto a bene ad iscrivermi a questo Book Club.
Prima di cominciare, vi ricordo i tre avvisi con cui ho introdotto il nostro primo appuntamento e che sono validi anche questa volta: 
1) in questi post spesso parlerò dettagliatamente di ciò che accade nei capitoli. Se volete evitare gli  spoiler, è meglio che torniate a leggere qui quando avrete letto le pagine di cui si tratta.
2) ho scritto molto, condizionata dall’effetto Hugo; ovviamente, la mia speranza è che la lettura risulti comunque di vostro interesse.
3) tutte le citazioni sono tratte da I Miserabili, Victor Hugo, trad. it. Marisa Zini, Mondadori, 2009.
Inoltre, il post principale della seconda tappa lo trovate qui, sempre su Una Fragola al Giorno.

La nostra lettura continua e, man mano che ci inoltriamo in questa Parte Prima, cominciamo a conoscere tutti gli altri personaggi che avranno ruoli importanti nel corso di tutto il romanzo.
I primi a far la loro comparsa, nel Libro Quarto, sono i Thénardier.
Solo citarli mi fa ribollire il sangue; eppure, il primo incontro con questa famiglia si svolge in un’atmosfera soffusa da una luce benevola e materna, data dalla descrizione di Hugo del gioco innocente di due bambine davanti a una taverna che, sotto lo sguardo attento della madre, sfruttano una grossa catena arrugginita come un’altalena, “e nulla era così grazioso come questo capriccio del caso, che di una catena di titani aveva fatto un’altalena di cherubini”. Sembra quasi richiamare la gioia spensierata di un quadro di Fragonard, I felici casi dell’altalena… anche se le piccole non dondolano tra i fiori e lo sfondo non è altrettanto idilliaco.
Sono, comunque, bimbe allegre e una madre dall’aria attenta: un’immagine che suggerisce un focolare domestico felice. C’è forse qualcosa che potrebbe attirare di più una madre preoccupata per il destino della propria prole, cui vorrebbe dare il meglio, e che non sa come farlo?

Essa le contemplava tutta commossa; la presenza degli angeli è un annunzio di paradiso; credette di scorgere al disopra di quell’albergo il misterioso QUI della provvidenza.

Ormai l’avrete capito: è Fantine la madre che osserva, Fantine che spera di poter dare un futuro dignitoso alla sua piccola.
Abbandonata Parigi, dove la sua colpa manifesta le impediva di trovare lavoro, e abbandonata ogni speranza di poter ricevere aiuto da Tholomyès (verso il quale “il suo cuore divenne cupo”, poiché “si infischiava della sua creatura e non prendeva sul serio quell’innocente”), la giovane si è fatta coraggio e ha deciso di tornare a cercare lavoro nel suo paese d’origine, Montreuil-sur-mer.
Le espressioni con cui Hugo rende la forza d’animo di questa giovane, pronta a ogni sacrificio per sostenere la propria bambina, passata dall’essere fanciulla spensierata a madre attenta, sono semplici ma pregne del sentimento di rispetto che evidentemente anche l’autore prova nei confronti del proprio personaggio, cui si somma l’ammirazione verso la maternità in generale (argomento che Hugo tocca qui e in diversi altri punti del romanzo).

Sentì confusamente che stava per cadere nella disperazione e scivolare nel peggio; ci voleva coraggio, ne ebbe e si irrigidì.

[…]

Il cuore le si strinse, ma essa prese la sua decisione: Fantine, lo vedremo, aveva il fiero coraggio della vita.

La decisione di cui si parla è quella, dolorosa, di lasciare in custodia la sua bambina per riuscire a trovare lavoro. 
Fantine sa che, non potendo dimostrare di essere sposata, la presenza di una bambina le conferirebbe subito l’etichetta di poco di buono, di svergognata, e che questo le impedirebbe di trovare un impiego che le permetta di sostenere sé e la figlia; per questo motivo, viste le bambine tanto felici di fronte alla locanda (che si chiama Al sergente di Waterloo) e la madre premurosa, decide di chiedere a questa donna ospitalità per la propria bimba, offrendo in cambio l’invio mensile del denaro necessario per mantenerla.
È in questo frangente che l’atmosfera apparentemente idilliaca comincia a perdere la sua luce e a mostrare, a noi lettori consapevoli, l’oscurità che in realtà alberga nei gestori della locanda. La signora Thénardier tace, ascolta l’offerta; il marito, per un momento ancora non visibile, ribatte alzando la posta e chiedendo più soldi, alzando la voce dal fondo della bettola.
Se il fato non avesse fatto fermare lì Fantine, chissà quale sarebbe stata la sua vita! Migliore, forse; diversa, senz’altro. Il fato è una forza imperscrutabile che lo stesso Hugo si esime dal commentare troppo approfonditamente, conscio forse dell’impossibilità, anche per lui, di comprendere il procedere della casualità.

La signora Thénardier era una donna rossa, polputa e angolosa, il tipo di donna da soldati in tutto il suo fare sgraziato; […] Giovane ancora, aveva appena trent’anni; se questa donna, allora lì rannicchiata, fosse stata in piedi, forse l’alta statura e le spalle quadre da colosso avrebbero fin da principio impaurito la viaggiatrice, offuscato la sua fiducia e ciò che dobbiamo narrare non sarebbe avvenuto. Una persona seduta invece che in piedi; a questo sono legati i destini.

Fantine ha visto la signora seduta e ha deciso di fidarsi; e noi lettori non possiamo che fidarci, al contrario, della sensazione strisciante che ci prende quando leggiamo delle contrattazioni che i coniugi fanno con la nostra giovane madre, rivelandosi sin da subito avidi e senza alcuna compassione. “Il topo preso era ben meschino” scrive Hugo, dato che noi conosciamo l’indigenza in cui versa Fantine, “ma il gatto si rallegra anche di un sorcio magro”. E questa frase, che introduce il capitolo Primo abbozzo di due losche figure, conferma la prima impressione data da questa coppia di farabutti e ci lascia intuire che la miseria di Fantine, purtroppo, continuerà a perseguitarla ancora.

Eran di quelle nature nane che, se per caso sono riscaldate da qualche oscura fiamma, divengono facilmente mostruose; c’era nella donna il fondo di un bruto e nell’uomo la stoffa di un miserabile; capaci entrambi al massimo grado di quell’orrendo progresso rivolto solo al male. Esistono certe anime che come i gamberi indietreggiano continuamente verso le tenebre, retrocedendo nella vita più di quanto non avanzino, adoperando l’esperienza ad accrescere la loro deformità, in continuo peggioramento e impregnandosi vieppiù di malvagità crescente. Quell’uomo e quella donna erano anime di tal specie.

Questa è la prima descrizione dei Thénardier; coloristica, composta da parole e immagini che di per sé sono tutto sommato beffarde (la similitudine coi gamberi, che abbassa i toni della narrazione e li adegua alla levatura dei Thénardier, è senz’altro di questo stampo) e che allo stesso tempo, però, preannuncia chiaramente i dolori che affliggeranno la vita della povera Euphrasie (ovverosia Cosette, dolce soprannome per una dolce creatura).
Forse per mitigare momentaneamente la triste situazione della bimba, Hugo si concede un excursus basato sui toni più ironici della descrizione precedentemente fatta anche della signora Thénardier e tratta, con una bonaria ironia che dovrà presto mettere da parte, dei nomi di battesimo altisonanti dati a bambini decisamente non aristocratici, per usare un eufemismo, abitudine data anche dalla lettura dei romanzi popolari tanto amati, appunto, dal popolo. Hugo sembra essere divertito da questo, ma non per questo pare contrario – anzi, lo definisce come uno dei risultati minori del rimescolamento dato dalla Rivoluzione.

Peccato che questa breve parentesi comica sia interrotta subito dalle condizioni in cui i maledetti Thénardier fanno crescere Cosette, una volta che la madre si è allontanata.

Grazie ai cinquantasette franchi della viaggiatrice, Thénardier aveva potuto evitare un protesto e fare onore alla propria firma; i mesi successivi essi ebbero ancora bisogno di denaro, la donna portò a Parigi e impegnò al monte di Pietà il corredo di Cosette per sessanta franchi. Spesi anche questi, i Thénardier si abituarono a considerare la bambina come un essere tenuto in casa loro per carità e la trattarono in conseguenza. Siccome non aveva più corredo, la vestirono con vecchie gonnelline e vecchie camicie delle piccole Thénardier, cioè di stracci. La nutrirono degli avanzi di tutti, un po’ meglio del cane e un po’ peggio del gatto; del resto il gatto e il cane erano i commensali consueti di Cosette, che mangiava con loro sotto il tavolo, con una scodella uguale alla loro.

[…]

Certe nature non possono amare da una parte senza odiare dall’altra; la madre Thénardier amava con passione le proprie figlie e questo le fece odiare l’estranea; è triste pensare che l’amore di una madre possa avere lati così brutti. Per quanto piccolo il posto che Cosette occupava in casa sua, le pareva che fosse sottratto alle sue figliole e che la piccina diminuisse l’aria che quelle respiravano.

Appena è in grado di camminare, a Cosette viene messa una scopa in mano e viene costretta a lavorare nella taverna, alla stregua di una schiava, ridotta a un esserino tutto pelle e ossa – un “allodoletta”, come la chiamano in paese, che però “non cantava mai”. Il quarto libro si conclude così, su una nota di immensa tristezza che denuncia l’orrore dello sfruttamento infantile.

Il quinto libro sposta l’attenzione su Montreuil-sur-mer e ce ne dà una breve descrizione, ponendo subito l’accento su un personaggio ancora ignoto, che tre anni prima dell’arrivo di Fantine (che avviene nel 1818) era giunto in paese e, grazie a una semplice idea per il miglioramento dell’industria manifatturiera del luogo, “si era arricchito, il che è bene, e aveva arricchito tutti intorno a sé, il che è meglio”. Il suo nome è papà Madeleine, presto signor Madeleine, proprietario di una grande fabbrica in paese.

Era un uomo di circa cinquant’anni, buono, e che sembrava preoccupato; ecco tutto quel che se ne poteva dire.

Madeleine appare buono non solo perché ha dato nuova vita a un paese in miseria, ma anche per come si comporta con gli altri e per come concede a tutti la possibilità di mantenersi e di lavorare.

Papà Madeleine dava lavoro a tutti; una cosa sola esigeva: siate un uomo onesto; siate una ragazza onesta.

Inoltre, utilizza gran parte dei suoi immensi guadagni per migliorare le strutture che aiutano gli indigenti e per dare condizioni migliori ai lavoratori; un vero e proprio filantropo, insomma, che come tutte le persone naturalmente buone provocherà curiosità e reazioni contrastanti in paese, dove alcune malelingue si ostinano a credere che la sua sia una messinscena per ottenere chissà quali vantaggi. Eppure, quando a Madeleine saranno offerte delle cariche, o degli onori, questi non li accetterà; e quando verrà invitato dalla buona società (da cui era stato ignorato per le sue origini poco chiare e umili) solo in virtù dei suoi guadagni, questi ignorerà gli inviti e continuerà a dare più attenzione ai miserabili, alienandosi i ricchi benpensanti, che finiranno così per accettarlo a metà, ammirandolo da un lato e trovandolo disdicevole dall’altro. 
Hugo sottolinea così la tendenza di coloro che compongono la parte “rispettabile” della società di cercare la malizia nel bene compiuto senza secondi fini; forse perché in un atteggiamento di questo tipo si rispecchia e scorge la sua stessa ipocrisia.  Teme questo individuo ricco, filantropo e sfuggente; il suo rifiuto di accettare posizioni di potere può apparire legittimo, ma sotto un certo profilo lo rende anche a-sociale, e da questa mancanza di contatto si redimerà solamente (e solo in parte, secondo la morale borghese) con l’accettazione della carica di sindaco della città, per evitare che rifiutare l’occasione di fare del bene si tramuti in un male:

Nel 1820, cinque anni dopo il suo arrivo a Montreuil-sur-mer, i servizi da lui resi al paese saltavan talmente agli occhi, il voto della regione era così unanime che il re lo nominò di nuovo sindaco della città;  rifiutò ancora, ma il prefetto resistette a questo rifiuto, tutti i notabili vennero a pregarlo, il popolo lo supplicava in piena strada, fu tanto viva l’insistenza che finì per accettare: soprattutto, come fu notato, quel che parve deciderlo fu l’apostrofe quasi irritata di una vecchia popolana che dalla soglia della porta gli gridò con stizza:
«Un buon sindaco è utile; c’è forse da indietreggiare di fronte al bene che si può compiere?»

Hugo dunque delinea anche in questo caso un personaggio moralmente degno, buono ma non stucchevole, che ha vissuto e sente fortemente l’ingiustizia che a volte colpisce gli uomini e le donne più deboli; costui valuta azioni e intenzioni con benevolenza e concede il proprio aiuto quando può e al meglio delle sue possibilità, sfruttando appieno i mezzi datigli dal suo ruolo e condividendo la sua conoscenza (che pare provenire sia da esperienze di vita, sia dai libri che man mano acquista).

Un giorno, vedendo alcuni paesani intenti a strappare le ortiche guardò questo mucchio di piante sradicate e già secche e disse:
«Roba morta; e tuttavia sarebbe utile se la sapeste usare: quando l’ortica è giovane, la foglia è un erbaggio eccellente; quando invecchia, possiede fibre e filamenti come la canapa e il lino. La tela d’ortica vale quella di canapa: tritata, serve per il pollame; macinata, per il bestiame bovino; il seme dell’ortica misto al foraggio rende lucido il pelo degli animali: la radice mescolata al sale produce un bel colore giallo; del resto è un fieno eccellente che si può falciare due volte. Cosa occorre all’ortica? Poca terra, nessuna cura, nessuna coltivazione; una cosa sola: il seme cade via via che matura ed è difficile a raccogliersi. Ecco tutto; per poco che ci si occupasse di lei, l’ortica sarebbe utile, trascurata diventa nociva; allora la si uccide. Quanti uomini rassomigliano all’ortica.» Dopo un silenzio, aggiunse: «Amici miei, ricordate questo, non vi sono né erbe cattive, né uomini cattivi, ma solo cattivi coltivatori.»

Credo che questo spezzone spieghi perfettamente qual è il pensiero di questo personaggio così particolare nella sua bontà, che assomiglia in parte a quella del mio amato monsignor Bienvenu. Non cito a caso il suo nome perché, purtroppo, scopriremo proprio in queste pagine che nel 1821 quest’anima buona è trapassata; la notizia, riportata sui giornali, sembra colpire molto il signor Madeleine, che arriva a portare il lutto.
Hugo scrive che il monsignore era nel frattempo divenuto cieco, e che lo assisteva la sorella; mi pare giusto parlarne perché il modo in cui il personaggio (e lo scrittore attraverso lui) affrontano la cecità è peculiare e sembra rifarsi all’immagine tradizionale del cieco che, paradossalmente, sembra riuscire a vedere più di chi ha l’uso degli occhi.

Gli manca qualcosa? No; non si perde la luce quado si possiede l’amore; e quale amore! Un amore fatto interamente di virtù. Dove vi è certezza non vi è cecità; l’anima cerca a tastoni l’anima e la trova; e quest’anima trovata e messa alla prova è una donna.



Mi ha ricordato l’enfasi data alla cecità di un altro personaggio, Déa, protagonista ne L’uomo che ride. Anche in questo caso chi non vede appare come una figura quasi angelica, che può percepire al meglio la natura dell’animo di chi la circonda; alla mancanza della vista viene data un’aura di sacralità non sempre facile da condividere, ma che ha indubbiamente una sua poeticità (soprattutto quando a parlarne è uno scrittore capace di gestire il lirismo in maniera grandiosa, come Hugo).


Detto questo, torno ad affrontare la storia e ciò che sicuramente avrete notato, ovvero che il lutto di Madeleine apre uno spiraglio sulle sue origini misteriose. Molti lettori avranno già compreso, a questo punto, chi sia il signore Madeleine; io ammetto che, all’epoca della prima lettura, fu questo il primo indizio che colsi – ma mi convinsi della sua identità solo dopo un altro paio di avvenimenti. Penso che anche voi abbiate già compreso di chi si tratta, vero?
Se ancora non fosse chiaro, c’è un altro chiaro segno in questo Libro Quinto, che arriva insieme a una delle figure più note di tutta l’opera: l’ispettore Javert.

Javert è uno dei miei grandi crucci. L’ispettore appare sin da subito come un uomo grigio e austero, e nel corso del libro la sua immagine non migliorerà affatto, per usare un eufemismo. Non è un personaggio amabile e, in generale, non è nemmeno gradevole; compirà alcuni gesti terribili, già li compie in queste pagine; eppure non riesco a odiarlo. Parte di questo, credo, è dato dal fatto che il mio odio è talmente rivolto verso quel ributtante farabutto di Thénardier (della cui avidità e piccolezza avete avuto un assaggio in questi capitoli) che difficilmente me ne rimane altro da distribuire, durante la lettura.
Volendo rimanere più seri, credo che questo mio atteggiamento sia dovuto soprattutto alla comprensione delle basi su cui si fonda la sua forma mentis. Tutto il suo personaggio è basato su una morale ferrea che non è sbagliata in sé e per sé, ma che diviene errore nell’estremizzazione con cui viene applicata da Javert: per lui la legge non è solo giusta – concetto condivisibile, nella maggior parte dei casi – bensì è infallibile. L’impossibilità di concepire l’errore come possibile all’interno delle strutture legislative e di giustizia gli impedisce di provare compassione (escludendolo, di fatto, dalla civiltà umana) e di percepire come reale l’eventualità della redenzione e del perdono, rendendolo cieco di fronte alle miserie del mondo. Esempio lampante di questo è la condanna risoluta che attua nei confronti di Fantine, in un episodio di cui parlerò entro qualche paragrafo. 
Inoltre, la sua posizione assolutista gli nega la visione di un miglioramento possibile della società e delle sue leggi, poiché se entrambe sono da considerarsi infallibili è lecito pensare che non siano da modificare in alcun modo; il risultato può essere soltanto una realtà stagnante e, paradossalmente, profondamente ingiusta. Sotto questo stesso profilo va indicata anche la sua convinzione riguardante la superiorità innegabile del borghese rispetto al miserabile, così come di una classe socio-economica sull’altra.

Componevano quest’uomo due sentimenti molto semplici e relativamente buoni, ma egli li rendeva quasi malvagi a forza di esagerarli: il rispetto dell’’autorità, l’odio della ribellione; e ai suoi occhi il furto, l’assassinio, tutti i delitti non erano che forme di ribellione. Avvolgeva in una specie di fede cieca e profonda tutto ciò che ha una funzione nello stato, dal primo ministro fino alla guardia campestre, copriva di disprezzo, d’avversione e di disgusto tutto ciò che anche una sola volta avesse oltrepassato la soglia legale del male.
Era assoluto e non ammetteva eccezioni.
Da una parte dice: «Il funzionario non può ingannarsi, il magistrato non hai mai torto» e dall’altra: «Costoro sono irrimediabilmente perduti; nulla di buono potrà scaturirne».

Posso offrire solamente un’attenuante al suo atteggiamento: la sua capacità, perlomeno, di saper giudicare e condannare anche sé stesso. Molti dei più grandi censori sono pronti ad assolversi prontamente, mentre Javert, forte della sua morale di ferro, non esita a scagliarsi anche contro i propri errori – dimostrazione di questo è la sua richiesta al sindaco Madeleine, sul finire del Libro Sesto, di essere destituito dalla sua carica.

«In quanto a esagerare, non esagero affatto. Ecco il mio ragionamento: vi ho sospettato ingiustamente; non è nulla. È il nostro diritto di sospettare, benché sia un abuso sospettare chi ci sta al di sopra. Ma, senza prove, in un accesso di collera, per vendetta, vi ho denunziato come forzato, voi, una persona rispettabile, un sindaco, un magistrato! Questo è grave, gravissimo. Ho offeso l’autorità nella vostra persona, io, agente dell’autorità! Se uno dei miei sottoposti avesse agito in tal modo, l’avrei dichiarato indegno del servizio e cacciato. Ebbene?… Ecco signor sindaco , ancora una parola. In vita mia sono spesso stato severo con gli altri: era giusto. Facevo bene. Adesso, se non fossi severo con me, tutto quel che ho fatto di giusto diverrebbe ingiusto. Devo forse risparmiarmi più degli altri? No. Come, sarei stato solo capace di castigare gli altri e non me? Sarei un miserabile! Quelli che dicono: quel mascalzone di Javert, avrebbero ragione! Signor sindaco, non desidero che mi trattiate con bontà, la vostra bontà mi ha già fatto fare abbastanza cattivo sangue quando era per gli altri. Non ne voglio per me. La bontà che consiste nel dar ragione alla prostituta contro il borghese, all’agente di polizia contro il sindaco, a quello che è in basso contro quello che è in alto, la chiamo una bontà cattiva: con una bontà simile si sfalda la società. Mio Dio, è molto facile essere buoni, il difficile è essere giusti. Eh, se fosse stato quel che credevo, non sarei stato buono con voi, io! Avreste visto! Signor sindaco, devo trattarmi come tratterei chiunque altro. […] Signor sindaco, il bene del servizio esige un esempio. Chiedo soltanto la destituzione dell’ispettore Javert.»

Javert, nella sua visione monolitica del mondo, non riesce ad accettare la bontà, che richiede il perdono e talvolta, in situazioni irrecuperabili, anche la punizione; la sua giustizia è l’applicazione cieca di leggi imposte dall’alto.

Quale che sia l’opinione che si decide di avere su Javert, è innegabile che la sua entrata in scena è accompagnata da alcuni momenti stilisticamente fantastici: una gran pagina di Hugo, espressiva e adatta a questo personaggio “formidabile”. La sua introduzione si intreccia inizialmente a una galleria di simboli di sapore classico legata alla rappresentazione di virtù e vizi degli uomini attraverso gli animali, in cui si mescolano letterarietà, teologia, mitologia e descrizioni vivaci, tutto in pochi capoversi calibrati alla perfezione. Ammetto che, per un momento, mi sono venuti in mente i daimon di Philip Pullman e del mondo da lui descritto nella trilogia Queste Oscure Materie
Il mondo animale viene citato perché Javert è, sostanzialmente, la realizzazione fisica dell’unione ossimorica tra ordine e forza bruta, tra natura umana e ferina, che a me ricorda anche un altro fenomeno naturale: la lava che scorre sotto le rocce e, lentamente, le fonde e crepa la superficie.

Il volto umano di Javert consisteva in un naso camuso, con due narici profonde verso cui salivano sulle guance due enormi fedine. Ci si sentiva a disagio la prima volta che si vedevano quelle due foreste e quelle due caverne; se Javert rideva, cosa rara e terribile, le labbra sottili si schiudevano e lasciavano scorgere non solo i denti ma le gengive e intorno il naso si formava una grinza schiacciata e selvaggia come sul muso di una belva. Serio Javert era un mastino, quando rideva una tigre. Del resto poco cranio, molta mascella, capelli che gli nascondevano la fronte e ricadevano sulle sopracciglia; tra i due occhi una ruga costante come un segno di collera, lo sguardo torvo, la bocca serrata e temibile, l’aria di comando feroce.

Un personaggio temibile sotto ogni aspetto, dunque, e pronto a mettersi sulla strada del sindaco Madeleine: è l’unico a non fidarsi davvero di lui, poiché lo vede troppo simile a un uomo, conosciuto anni prima in un bagno penale di Tolone… Ma come arriverà a denunciarlo, come abbiamo letto nella citazione che vi ho trascritto più su?
Tutto comincia con una scena concitata, in cui i sospetti di Javert saranno parzialmente confermati, e continua in un episodio particolarmente doloroso (di cui sarà protagonista anche Fantine, come vi ho anticipato più su), che scatenerà la rabbia vendicativa dell’ispettore.
La prima scena vede Madeleine esibire una forza incredibile per aiutare un pover’uomo, papà Fauchelavant, rimasto incastrato sotto un carro; Javert spiega chiaramente di conoscere un solo essere umano capace di sollevare quella carretta da s0lo (il forzato di Tolone, forzato che ben conosciamo…) e Madeleine, pur di non far morire un innocente, esporrà col suo gesto eroico la propria identità. Il riconoscimento tra i due uomini è davvero intenso: basato soltanto sulla forza delle espressioni e dei gesti dei personaggi, rappresenta il momento in cui tutti i lettori, ne sono certa, hanno visto il volto noto dietro al nome di Madeleine.
La seconda scena, invece, occupa l’ultimo capitolo del Libro Quinto e riguarda l’incarcerazione di Fantine a causa di una lite con un borghese: Javert la preleverà per imprigionarla, ma l’intervento del sindaco impedirà che questo accada. È un momento narrativo composto da continui saliscendi emotivi, mentre la nostra giovane donna verrà contesa tra due veri “giganti”, le personificazioni di due sistemi di giustizia agli antipodi: Javert e la sua rabbia spaventano, il sindaco e la sua autorità, mista a vergogna per quella che sente come propria mancanza, commuovono.
Ma come si è arrivati a questo punto, a Fantine trascinata via dalla polizia?
Bisogna fare un terribile passo indietro e vedere fino a dove le persone possono arrivare per divertimento personale o perché si credono in grado di scegliere per gli altri.

Fantine, una volta arrivata a Montreuil-sur-mer, riesce a trovare lavoro proprio nella fabbrica del signor Madeleine. Tristemente, non riesce a mantenere a lungo il segreto dell’esistenza della sua creatura; i pettegolezzi cominciano a girare, le lettere e i soldi che manda ai Thénardier incuriosiscono le malelingue, che subito si attivano.

Certe persone sono malvagie unicamente per bisogno di parlare: le loro chiacchiere, conversazioni in salotto, pettegolezzi in anticamera assomigliano a quei caminetti che consumano subito la legna; occorre loro molto combustile: il prossimo.

Scoperta e additata come svergognata, Fantine viene allontanata dalla fabbrica da una sorvegliante, senza che la voce giunga al padrone; intanto, i Thénardier continuano a chiedere sempre più soldi, adducendo scuse su scuse.
La giovane madre deve abituarsi al discrimine, alle occhiate del paese, e riprende a lavorare come sartina. Ma le lettere continuano ad arrivare: i locandieri dicono che Cosette ha freddo; si fa rasare e vende i suoi bei capelli biondi. Dicono che ha una malattia e senza medicine morirà: Fantine si fa estrarre i suoi incisivi perlacei per trovare i soldi.
Questo capitolo atroce, Il successo continua, in cui vengono descritti i mezzi di sussistenza che si fanno via via più miseri, è pervaso da una grande tristezza e sembra fungere da punta che stuzzica e pizzica il cuore, aizzando il sentimento di indignazione che è sopito nel lettore e spingendolo alla riflessione sulle disuguaglianze sociali. Fantine cade sempre più giù nel baratro a causa dell’avidità e dal moralismo altrui: la sua abnegazione, tuttavia, non sembra mai abbandonarla, almeno fino a quando non tocca il fondo, in un crescendo di pathos che porta il capitolo a chiudersi con frasi icastiche e brevi, destinate a sconvolgere il lettore di allora e a scuotere noi che lo leggiamo secoli dopo.

I debitori erano più che mai spietati. Il rigattiere che si era ripreso quasi tutti i mobili, non faceva che dirle: Quando mi pagherai, sgualdrina? Ma che cosa volvano da lei, buon Dio! Ella sentiva che le davano la caccia e si sviluppava in lei qualcosa dell’animale feroce. Pressappoco in quel tempo il Thénardier le scrisse che decisamente aveva aspettato con troppa bontà e che gli occorrevano cento franchi, subito; altrimenti avrebbe messo alla porta la piccola Cosette, ancora convalescente della sua grave malattia, col freddo e i pericoli della strada che si aggiustasse come poteva; magari sarebbe anche crepata, se le piaceva. Cento franchi! Pensò Fantine. Ma dove c’è un mestiere da guadagnare cento soldi al giorno?
«Su» si disse «vendiamo il resto.»
La disgraziata divenne prostituta.

A queste parole segue un capitolo intenso, denso sia per i concetti che esprimere, sia per la sintassi scelta dall’autore: Christus nos liberavit, in cui Hugo esprime chiaramente quello che è il suo pensiero sulla situazione che il suo personaggio è costretto a vivere, è un’arringa che fuoriesce momentaneamente dallo scorrere degli eventi per sottolineare la disumanità di una vita costretta all’annichilimento fisico e mentale.
È un’accusa e, allo stesso tempo, il pianto di un uomo che non riesce a concepire come il suo paese, addirittura il suo Dio possano permettere una miseria così totale.

Che cos’è questa storia di Fantine? E’ la società che compra una schiava.
A chi? Alla miseria.
Alla fame, al freddo, all’isolamento, all’abbandono, all’indigenza. Doloroso mercato: un’anima per un pezzo di pane. La miseria offre, la società accetta.
[…] Al punto cui siamo giunti di questo dramma doloroso non rimane più nulla a Fantine di quel ch’essa fu altra volta. Diventando fango, è diventata marmo. Chi la tocca ha freddo. Ella passa, vi subisce e vi ignora; è la figura disonorata e severa. La vita e l’ordine sociale le hanno detto la loro ultima parola: tutto quel che le dovrà toccare in sorte le è già toccato: tutto ella ha patito, tutto sopportato, tutto provato, tutto sofferto, tutto perduto, tutto pianto. È rassegnata di quella rassegnazione che assomiglia all’indifferenza come la morte assomiglia al sonno. Non evita più nulla: non teme più nulla. Si scateni su di lei tutto il nembo e passi su di lei tutto l’oceano! Che le importa! È una spugna satura. Così almeno ella crede, ma è un errore supporre di esaurire la sorte e di toccare il fondo di qualsiasi cosa.
Ahimè! Che sono tutti questi destini spinti così alla rinfusa? Dove vanno? Perché sono tali?
Colui che lo sa vede tutta l’ombra.
È solo. Si chiama Dio.

È in queste condizioni, mentre passeggia in attesa di clienti, che Fantine comincia la lite con il borghese, a causa di un suo stupido scherzo, di un po’ di neve che lui le ha infilato tra le scapole nude. La rabbia che mi provoca questa scena è immensa, perché l’uomo che la infastidisce lo fa per puro sollazzo e le conseguenze del suo gesto non ricadranno mai su di lui, autore del torto, ma su di lei, colpevole in quanto socialmente inferiore.
Portata in carcere, come ho già scritto, sembra quasi di essere di fronte a una contesa per la sua anima; quando è Madeleine a vincere il confronto, una nuova serenità sembra essere possibile. Lo stesso Madeleine dice, a lei e un po’ anche al lettore, che “questo inferno da cui uscite è la prima forma del cielo: bisognava cominciare da lì”. Forse una frase non del tutto convincente, per noi che non abbiamo vissuto la vita di questa giovane; per lei, però, sono parole che segnano una rinascita.
La nota di speranza con cui si chiude il Libro Quinto permette, dunque, di tirare un lungo sospiro di sollievo, un soffio trattenuto dall’inizio della discesa di Fantine.

La conclusione del Libro Sesto (e di questa tappa), al contrario, promettono esattamente l’opposto.
Le frizioni tra Javert e Madeleine hanno raggiunto il parossismo; Fantine sconta gli anni passati al freddo, usurata dalla fatica; un uomo, a quanto pare riconosciuto come Jean Valjean, è stato catturato e sta per essere condannato… Sempre che un certo sindaco non decida altrimenti, esponendosi.

La strada da percorrere prima della pace è ancora lunga.


Frasi meritevoli che, per un motivo o per l’altro, non ho inserito nel corpo del post

  • Perché quell’avanzo di carretta era lì sulla strada? Prima per ingombrare la via, poi per finire di arrugginirsi; così nel vecchio ordinamento sociale c’è una quantità d’istituzioni che si trovano così sul suo passaggio e non hanno per starci nessun’altra ragione.
  • Pranzava sempre solo con un libro aperto dinanzi a sé e leggeva: aveva una piccola biblioteca ben scelta, amava i libri, che sono amici freddi e sicuri. A mano a mano che con la fortuna disponeva di maggior tempo, pareva che ne approfittasse per coltivare la sua intelligenza; dacché era a Montreuil-sur-mer, si notava che di anno in anno il suo linguaggio diveniva più forbito, più scelto e più dolce.
  • Ora, se si ammette con noi che in ogni uomo vi sia una delle specie animali della creazione, ci sarà facile dire che cos’era l’agente Javert. I contadini delle Asturie sono convinti che ogni qual volta una lupo partorisce dei piccoli, dia alla luce anche un cane, il quale viene ucciso dalla madre, perché altrimenti crescendo divorerebbe gli altri.
    Date un volto umano a questo cane figlio d’una lupa e avrete Javert.
  • Talvolta la signora Victurnien la vedeva passare dalla finestra, notava la miseria di quella “donnaccia”, in grazia sua “rimessa al proprio posto” e si congratulava. I malvagi hanno una felicità torbida.
  • Fantine gettò lo specchio dalla finestra; da molto tempo aveva abbandonato la sua cameretta del secondo piano per un sottotetto chiuso da un saliscendi, una di quelle stamberghe dove il soffitto fa angolo con il pavimento e vi fa urtare a ogni movimento il capo. Il povero non può andare al fondo della sua camera come al fondo del suo destino se non curvandosi sempre di più.
  • «Questa miserabile ha insultato il signor sindaco.»
    «Ciò mi riguarda» disse Madeleine. «La mia ingiuria mi appartiene, forse. Posso farne quel che voglio.»
    «Chiedo scusa al signor sindaco. La sua ingiuria non appartiene a lui, ma alla giustizia.»
    «Ispettore Javert» replicò Madeleine «la prima giustizia è la coscienza. Ho sentito questa donna; so quello che faccio.»



Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :