Ugo Pirro e Giovanni Berardi
Ugo Pirro è morto in una fredda mattina di gennaio. Era esattamente il giorno 18 dell’anno 2008. E per il sottoscritto l’evento si era immediatamente trasformato in un solenne rimpianto perché un discorso che era cominciato ora si andava ad interrompere prematuramente e definitivamente. Si perché adesso Ugo Pirro diceva di avere veramente tempo e, finalmente, la voglia finanche di “scendere tra la gente”, “tra i contadini che sudavano sulla terra”, “tra i giovani nelle scuole”, “e proprio nell’agro pontino così pregno di storia e di lavoro, ma anche di violenze e di soprusi”. E la realtà della bonifica pontina lo interessava moltissimo, sempre pregno di nuovi appunti in merito era il suo taccuino, a tal punto da avere nel cassetto due sceneggiature avviate, dal taglio diverso certo, e alle quali lavorava periodicamente, nel tentativo di aggiornarle sempre con le dovute scoperte che cercava di capire, di seguire personalmente, capitando di tanto in tanto in zona pontina. Erano due progetti strutturati sullo stesso ambiente e sullo stesso processo, la redenzione dell’agro pontino, che Pirro tentava di verificare ed approfondire per i registi Gillo Pontecorvo, in questo senso il taglio era strettamente sociale e politico, e l’altro per Luigi Comencini, in cui, date le caratteristiche del regista, il soggetto era strutturato in un contesto più da commedia, ma con le radici ben salde, come diceva, nella grande lezione del neorealismo. Il suo era, in questo senso, anche un lamento: Pirro diceva che il cinema italiano inspiegabilmente aveva trascurato quel periodo e che la bonifica dell’agro pontino pareva non interessare mai a nessuno. Ricordava di averne parlato solo, e sempre assiduamente, con lo scrittore Corrado Alvaro, uno dei pochi intellettuali che aveva raccontato in letteratura la grande epopea dell’ agro redento e le sofferenze delle persone chiamate a realizzarla.
Il nostro primo incontro, d’altronde, era avvenuto proprio a Latina alla fine degli anni novanta, nell’ aula magna del Liceo Classico, dove lo sceneggiatore era sceso per leggere e per spiegare agli studenti quella che rimane senz’altro una delle migliori sceneggiature del cinema italiano di tutti i tempi, e Pirro ci teneva in maniera solenne a renderne leggibile proprio il rigore asciutto e lo stile altamente spettacolare e grottesco del copione; si trattava de Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, portato sullo schermo dal regista Elio Petri nel 1970.
Elio Petri fu, senz’altro, uno dei migliori realizzatori delle sue sceneggiature, perché nell’aula magna del liceo Ugo Pirro si soffermò a lungo a parlare soprattutto di lui, del suo cinema, della loro collaborazione che durava sin dal 1967, quando insieme, nelle loro specifiche e separate discipline, realizzarono il film A ciascuno il suo, dal libro di Leonardo Sciascia, fra l’altro palma d’oro per la sceneggiatura a Cannes, una delle prime e decise opere sulla mafia e primo tra i libri di Sciascia a diventare un film. Ora una considerazione personale e pertinente, relativa addirittura alla mia infanzia, è necessario e divertente rivelare: Il riparatore di biciclette, un tal signore Guerrino Fenoglio, che un giorno e l’altro pure (ma ero ancora un bambino) mi riparava la camera d’aria alla bicicletta Safari, un’imitazione della gloriosa bicicletta Graziella, scoprì il cinema importante (come poi cominciò a chiamarlo) per caso, lui che amava esclusivamente il cinema della più totale evasione, andando a vedere proprio A ciascuno il suo, scambiandolo però per un titolo del genere western, tanto in voga in quegli anni. Guerrino, a suo modo un cinefilo appassionato (alla Quentin Tarantino oggi sarebbe opportuno dire) raccontava che dopo i primi attimi di smarrimento, misti anche ad un po’ di rabbia, cominciò a seguire con grande interesse il film, tanto da affermare, alla conclusione della proiezione, che aveva visto davvero un bel, anzi, un grande film, e che ci aveva trovato tutto quello che chiedeva ad uno spettacolo: ritmo, narrativa, sparatorie, cronache sentimentali, e che, in definitiva, lo aveva fatto, e anche fortemente, riflettere. Guerrino raccontava di avere scoperto il cinema importante proprio sul posto, dentro la sala, tra il fumo copioso e le sedie di legno (grande poesia) del cinema Odeon di Tripoli, in Libia. Erano gli anni in cui cominciavano ad avere un forte riscontro sul pubblico anche i film dalle grandi tematiche, perché quegli sceneggiatori (pensiamo anche a professionisti come Sonego, Vincenzoni, Scarpelli, Amidei) sapevano scrivere e quei registi (pensiamo a Risi, Monicelli, Comencini, Scola) sapevano realizzare anche le storie più ragionate con l’unico vero materiale di cui un film deve essere costruito: lo spettacolo. Ed infatti il ciclista Guerrino Fenoglio riuscirà a vedere, e ad amare, in seguito anche Visconti, Fellini, Pasolini, Antonioni, tanto da guadagnare il nomignolo di Aristarco, dal cognome del noto studioso di cinema, affibbiatogli dal direttore del vicino Istituto Italiano di Cultura, il professor Salvatore Candido, grande appassionato e formidabile sostenitore e divulgatore del cinema italiano in Libia.
Era proprio Ugo Pirro a spiegare spesso, proprio per questo contesto ideale, che l’atteggiamento che aveva assunto la critica cinematografica del dopoguerra verso il cinema italiano aveva prodotto, negli anni, un risultato decisamente fuorviante. Nella convinzione, portata avanti anche in maniera sostenuta, che tutto quello che era popolare era da guardarsi con estremo sospetto, la critica aveva in realtà attivato un meccanismo di lacerazione, un percorso culturale che finiva semplicemente per dividere gli autori, la gente del cinema, in commerciali o non commerciali, come dire in buoni e cattivi. E questo ha condizionato tantissimo l’industria del cinema, limitato finanche in sede di fruizione commerciale. Pirro insisteva ancora dicendo che i critici, continuando a leggere i film valorizzandone solo il punto di vista estetico, non riuscivano a coglierne affatto il valori sociologico e antropologico.
Secondo Pirro, per scendere nell’esempio concreto, un film come La poliziotta, diretto da Steno nel 1974, bistrattato ferocemente dalla critica, raccontava molto meglio l’Italia del periodo di tanti altri film invece lungamente osannati. Insistendo nell’idea, Pirro diceva che La poliziotta esprimeva nel modo più semplice possibile il concetto che essere un democristiano nel 1974 equivaleva ad essere corrotto, perché questo rifletteva, nel 1974, l’idea comune di tutta la gente. In questo senso quella di Pirro era proprio una battaglia particolarmente sentita. Diceva: “Io mi batto ferocemente contro l’idea, che è ormai diventata anche politica, secondo cui soltanto i film definiti “di qualità” servono alla conoscenza ed alla crescita dello spettatore”. Infatti anche se lungamente, o quasi, identificato come un collaboratore di registi impegnati civilmente e politicizzati, Pirro non ha mai avuto timore di scrivere anche per i registi del cinema più popolare. Basta scorrere la sua filmografia con attenzione per avere la certezza di questo: Canzoni, canzoni, canzoni (1953) di Domenico Palella, Cerasella (1960) di Raffaello Matarazzo, Navajo Joe (1966) di Sergio Corrucci, Il generale dorme in piedi (1972) di Francesco Massaro, Paolo Barca, maestro elementare, praticamente nudista (1975) di Flavio Mogherini, Colpita da improvviso benessere (1976) di Franco Giraldi. Alla cultura cinematografica del novecento Ugo Pirro ha consegnato comunque quelli che oggi sono rimasti autentici capisaldi di sceneggiatura, testi consacrati ormai al valore didattico per le scuole di cinema: oltre ai titoli già citati ricordiamo Il processo di Verona (1964) diretto da Carlo Lizzani, tratto proprio dai diari di Ciano e incentrato sul personaggio di Edda, Metello (1970) diretto da Mauro Bolognini, Il giardino dei Finzi Contini (1970) diretto da Vittorio De Sica, La classe operaia va in paradiso (1972) diretto ancora da Petri, Delitto d’amore (1974) diretto da Luigi Comencini, I guappi (1974) diretto da Pasquale Squitieri.
Ugo Pirro oltre che sceneggiatore è stato anche un profondo ed ispirato scrittore. Diceva molto spesso, e con grande umiltà, che in fondo lui non sapeva scrivere poi così bene, ma senz’altro aveva moltissimo da raccontare. Ricordo che la giornata precedente ad una delle prime ricche chiacchierate con Ugo Pirro l’ho passata divorando nuovamente il suo bel libro Celluloide, un romanzo scritto proprio per storicizzare i tempi della lavorazione del film di Roberto Rossellini Roma, città aperta (1945). Celluloide rimane davvero la genesi narrativa di un’opera cinematografica, Roma città aperta appunto, che ha cambiato e deciso il linguaggio del cinema italiano. Pirro riuscì a trovare nel capolavoro neorealista di Rossellini (aprendo in questo senso quella che è diventata poi una polemica con la storiografia neorealista) quelli che poi saranno gli echi e gli stilemi della grande commedia all’italiana. L’uso degli attori, Anna Magnani e Aldo Fabrizi, ad esempio, famosi sino ad allora soprattutto per certi film popolareschi e corrivi, fu la mossa che attestò secondo Pirro un geniale recupero tra quanto era rimasto di acceso ma sepolto tra le rovine della tradizione del cinema italiano, valorizzando infine una sorta di continuità con la migliore realtà cinematografica italiana, precedente anche al movimento neorealista.
Tra gli altri suoi libri, Soltanto un nome tra i titoli di testa, è dedicato al mondo del cinema ed al ruolo che il mestiere dello sceneggiatore può occupare; un altro, Mio figlio non sa leggere, è ritenuto ormai un testo importante proprio dalla letteratura medica psichiatrica; Le soldatesse (1965), che è stato il suo primissimo romanzo (scritto come ha detto proprio per entrare nel mondo del cinema: “Se non avevi scritto almeno un libro, in quei tardi anni cinquanta e nei primi anni sessanta, l’entrata nel mondo del cinema come sceneggiatore era preclusa”), è diventato nel 1963 un film diretto da Valerio Zurlini, così come il suo secondo romanzo Jovanka e le altre, portato sullo schermo nel 1960 da Martin Ritt. Le soldatesse e Jovanka e le altre furono due testi atti a denunciare, appassionatamente, autentici episodi criminali della seconda guerra mondiale. I romanzi, rispetto ai film sceneggiati l’uno da Franco Solinas, Piero De Bernardi, Leo Benvenuti e il regista Zurlini, l’altro sceneggiato per il regista Martin Ritt da Ivo Perilli, ebbero risonanza e credibilità maggiore.
Giovanni Berardi