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Ultimatum Ue: il Governo ‘scarica’ la crisi sui lavoratori (piu precarietà e meno pensioni) salvando i ricchi

Creato il 26 ottobre 2011 da Candidonews @Candidonews

Ultimatum Ue: il Governo ‘scarica’ la crisi sui lavoratori (piu precarietà e meno pensioni) salvando i ricchi

Il Governo ha spedito la ‘letterina’ all’Europa. In breve tempo le classi piu deboli saranno chiamate a sacrifici pesanti (dopo quelli previsti dalle manovre di luglio ed agosto). I lavoratori dipendenti potranno essere licenziati piu facilmente e dovranno andare in pensione piu tardi. Lo stato poi sarà costretto a vendere i beni immobili. (Chissà quanti affittuari delle Case Popolari potranno acquistare la casa e quanti saranno ‘sbattuti’ fuori).

Nessun sacrificio per le classi piu forti, per i privilegiati. Come al solito.

Su Repubblica.it hanno pubblicato una approfondita Inchiesta sulla precarietà nel nostro paese e sul colpo mortale dato dall’articolo 8 della manovra estiva, quello voluto da Marchionne:

Manovra, ecco la scorciatoia del governo
verso un Paese sempre più precario

Licenziamenti senza giusta causa che si chiudono con un indennizzo ma senza il reintegro; la retribuzione che diventa una variabile decisa dai contratti di prossimità; mansioni e inquadramenti a prescindere dai titoli e dal curriculum; orari, pause, notti in deroga agli accordi nazionali; part time sempre più simile al lavoro a chiamata. Ecco come il contestato articolo 8 può ulteriormente cambiare la condizione dei lavoratori in Italia

Detto questo, il problema Italia è evidente. Il Post sintetizza un articolo della BBC sulla crisi italiana, con i pro ed i contro dei nostri conti:

Laurence Knight della BBC ha fatto un riassunto semplice e chiaro di che cosa va e di che cosa non funziona nell’economia del nostro paese.

1. Il debito
Il nostro problema principale, come si sa e si ripete da molti anni e ancora di più dall’inizio della crisi, è il debito pubblico. Uno dei celebri parametri di Maastricht, che regolavano l’ingresso degli stati europei nella moneta unica, stabiliva il tetto del 60 per cento del rapporto tra debito e prodotto interno lordo (PIL): un rapporto che l’Italia raggiunse nel 1982. Da allora, il nostro debito pubblico è cresciuto in modo drammatico nell’arco di pochi anni: tra il 1982 e il 1994, in soli dodici anni, è passato dal 60 per cento al 121 per cento del prodotto interno lordo. Pochissimi paesi del mondo hanno percentuali maggiori, tra cui la Grecia colpita dalla crisi (che supererà il 160 per cento nei prossimi anni, secondo le previsioni) e il Giappone (che ha condizioni eccezionali nel panorama economico mondiale, con un rapporto deficit/PIL oltre il 200 per cento).

Oggi il debito italiano è di poco inferiore al suo massimo storico, intorno al 118 per cento. Si tratta di un rapporto: una crescita della nostra economia porterebbe a una crescita del PIL, abbassando quel valore. In passato, i governi hanno potuto diminuire il peso del debito aumentando l’inflazione, ovvero intervenendo sul valore della moneta: semplificando, se dieci anni fa lo Stato ha prestato 100 promettendo di restituire 120, e nell’arco dei dieci anni la moneta si è svalutata molto (aumentando i prezzi e i salari, e quindi le tasse), restituire quei 120 diventa molto più facile. Da quando l’Italia fa parte dell’euro, tuttavia, le politiche monetarie sono decise centralmente, e non si può più ricorrere allo strumento dell’inflazione.

2. Il debito: come è fatto
Qui viene la prima nota positiva per l’Italia, che riguarda la struttura del nostro debito pubblico. Dall’inizio dell’unione monetaria, alcuni paesi “di periferia”, come l’Irlanda e la Grecia, hanno ricevuto grandissimi investimenti da parte delle banche delle nazioni forti, come la Francia e la Germania. Se da un lato questo ha favorito la crescita dei paesi periferici, dall’altro ha alimentato un meccanismo molto rischioso, poiché i principali creditori sono i paesi stranieri (e le loro banche).

La situazione italiana è differente. La maggior parte del nostro debito pubblico, come mostra bene questa infografica, rimane all’interno del nostro paese, e questo, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali (l’organizzazione che riunisce molte delle banche centrali mondiali) mette l’Italia in una condizione non peggiore, per quanto riguarda il debito pubblico, della Francia, del Canada o del Regno Unito.

3. Prudenza
Un altro aspetto positivo è la nostra prudenza finanziaria. Dopo la rapidissima crescita del debito pubblico che abbiamo descritto poco sopra, l’Italia è stata costretta a diventare molto più attenta: il nostro governo spende regolarmente meno, in servizi ai cittadini e in opere pubbliche, di quanto guadagna dalle tasse. In gergo economico si dice che il nostro avanzo primario è positivo, e questo è successo tutti gli anni dal 1992 a oggi, con l’eccezione del 2009. Ma l’avanzo primario non tiene conto della spesa per gli interessi del nostro debito pubblico (che aumenta, tra l’altro, con l’aumentare dello spread).

4. La crescita
Che cosa non funziona, quindi? Il fatto è che l’economia italiana non cresce. Negli ultimi 15 anni, ricorda Knight, la crescita media del nostro PIL è stata uno scarsissimo 0,75%, molto meno degli interessi che sono stati garantiti in passato agli investitori che hanno voluto prestare soldi allo Stato italiano per finanziare il debito pubblico. L’effetto è che, nonostante l’avanzo primario, il rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo (che come abbiamo visto è quasi stagnante) non diminuisce, e può addirittura aumentare, come succede da circa tre anni.

5. Le soluzioni
Le soluzioni possibili per sostenere la crescita senza ricorrere all’inflazione sono diverse, alcune delle quali elencate nella “lettera segreta” che la Banca Centrale Europea inviò al governo italiano ai primi di agosto: decisi tagli alla spesa pubblica, liberalizzazioni, riforma delle pensioni.

Ma il meccanismo non è automatico. Minore spesa pubblica, così come maggiore tassazione, significano anche meno soldi nelle tasche dei cittadini, e quindi portano molto probabilmente a una diminuzione dei consumi e a un aumento della disoccupazione (le imprese investono meno e assumono meno). In altri termini, mettere a posto i conti dello Stato può avere effetti pesanti sull’economia e ostacolare la crescita del prodotto interno lordo.

Questi effetti negativi spaventano i mercati, che quindi chiedono interessi più alti per prestare denaro all’Italia e innescano un circolo vizioso pericolosissimo. Come abbiamo visto, l’Italia usa i soldi che gli vengono prestati essenzialmente per pagare gli interessi del suo enorme debito pubblico accumulato in passato: ma se i soldi continuano ad essere prestati al nostro paese a interessi alti, il nostro debito diventa sempre meno sostenibile.


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