Il passato di Hood e Carrie sovrasta chiaramente ogni altra cosa, il loro legame è fortissimo ma un conto è farlo affiorare con flashback oscillanti, un altro è dedicarci ampio spazio con porzioni di puntate che a nulla servono se non a fortificare straordinariamente lo spirito di questa coppia devastata dall’amore, che tutto unisce e tutto distrugge al solo muoversi, rovinando in un modo o nell’altra la vita di chiunque abiti a Banshee. Ma c’è molto altro che unisce il ladro-che-si-finge-sceriffo all’universo di facce e caratteri che ha smosso con il suo arrivo, a partire da Proctor e la nipote Rebecca, entrambi protagonisti di un’enorme crescita che li piazza al centro di uno sviluppo narrativo molto sfaccettato e tutt’altro che banale, passando per la squadra di polizia, ora molto più importante e non soltanto per uso controvoglia di calci e pugni, e finendo con la maggior rilevanza della tribù indiana, con un ruolo nella trama orizzontale che emerge a suon di legnate. È una solidità narrativa che scolpisce i protagonisti e li rende motori principali, non che prima non lo fossero ma adesso la storia generale ha davvero poca rilevanza, è schiacciata dal loro carisma straripante che trascina l’intera serie soffermandosi ora su uno ora su un altro con una totalità che toglie respiro a tutto il resto.
Stupisce anche la scelta registica, si cerca di dare una linea continuativa agli episodi, un qualcosa che scardini dall’ordinarietà televisiva che spesso si sacrifica con una direzione pulita e funzionale proprio per far affiorare la narrazione – non che si centri pienamente il bersaglio (a volte si esagera e si finisce spesso per sentire esageratamente che Banshee vuole una regia diversa), ma come nella prima serie, dove lunghi piano sequenza apparivano saltuariamente per seguire le scazzottate di Hood, il tono più intimista necessita di un taglio maggiormente autoriale, con un montaggio studiato che associ immagini e umori. La serie cresce, spezza ginocchi e dispensa morsi raggiungendo poi il suo vertice artistico con l’ormai noto episodio cinque, dove la delicatezza fuoriesce e stringe per il collo ogni cosa, calando però lentamente nella seconda parte, forse un poco annacquata, che clamorosamente, pur dispensando un’intensità ineguagliabile, sfigura proprio nell’episodio finale, figlio di troppe coincidenze fortuite e necessità narrative.
Poco male, al resto ci pensano i pugni e la violenza, si rimane sempre su un tasso molto, molto elevato, aggressivo e cruento, dolorosamente fisico nella lunghezza e nella ricerca di un realismo, per quanto di finzione, che mostri fatica, sudore e sangue, tanto da non sfigurare nemmeno nell’estremizzazione divertita con esplosioni gore e pulp. Tra le meglio cose in tv, una serie in crescendo che cambia e si rinnova, un protagonista memorabile e una serie di personaggi grandiosi – perderla sarebbe un vero peccato.