UMA, il profumo della fatica. Un documentario da non perdere

Creato il 27 gennaio 2015 da Oggialcinemanet @oggialcinema
Nel suo desiderio di comunicare quanto prima la sconfitta del persiano, nel 490 a.C. il soldato greco percorreva i quaranta chilometri che separavano Maratona da Atene. Nel suo desiderio di perseguire un’ideale politico impregnato di vita e di libertà, il detenuto inglese Smith, protagonista del libro “La solitudine del Maratoneta” di Alan Sillitoe, (1959), giungeva a una conclusione: “Io so una cosa che non sapevo prima, che c’è una guerra tra me e loro” (guerra tra la società cosiddetta civile e i carcerati). Oggi i Trionfi militari viaggiano “in tempo reale” con l’handicap del non meno reale spazio, dove i corpi mutilati marciscono. Argomenti comuni, ovvi e non temporali, tra i due eventi sono, in primis, la guerra e la maratona. La durata corporea cede il suo posto all’intensità dell’istante della messa in scena.UMA è il titolo del documentario, che debuttato al Festival di Cinema Iberoamericano di Huelva del 2014, messo in scena dal portoghese Carlos Gomes e dallo spagnolo Fran Lòpez Reyes ed è l’acronimo di Ultra Maratona Atlantica, una gara che si svolge nel sud del Portogallo, a 50 km da Lisbona, dove esiste un territorio di rara bellezza naturale, situato in una delle coste più incontaminate d’Europa e dove é ancora possibile sognare un sentimento di libertà primordiale. Non è un caso che Eugenio Montale abbia parlato di sogno per descrivere la bellezza dell’atletica leggera, ed in particolare della maratona: “Amo l’atletica perché è poesia. Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta”, una delle specialità sportive più massacranti, fatta per chi è in grado di resistere alla fatica e alla paura e che, per tagliare il traguardo, deve abbandonarsi completamente al suo corpo, concentrare tutto nei gesti precisi e morbidi di braccia e gambe. Nasce lo sport da un surplus di forze vitali, ripartite arbitrariamente tra la popolazione.Dalla stremante maratona di Dorando Pietri, vincitore/perdente della gara ad inizio Novecento, (interpretato egregiamente da Luigi Lo Cascio nella miniserie televisiva Il sogno del maratoneta di Leone Pompucci nel 2012), fino a Abebe Bikila “quello che correva a piedi”, diventato il simbolo della maratona dopo aver vinto le Olimpiadi di Roma del 1960, molti registi ed attori si sono cimentati nel descrivere protagonisti, contesti e sogni di questa disciplina, adottando svariati punti di vista. Così è Colin Smith (alias Tom Courtenay), protagonista dello splendido The Loneliness of the Long Distance Runner (Tony Richardson, 1962), che interpreta la storia di un teenager di umile estrazione sociale in lotta con il mondo e refrattario a ogni forma di autorità, ma alla ricerca del suo riscatto-ingresso nel normalizzato successo borghese attraverso la maratona.Mentre nel film documentario Spirit of the Marathon II (2013) sequel milionario di Spirit of the Marathon (2007) entrambi di Jon Dunham, girati rispettivamente all’interno della Maratona di Roma e della Chicago Marathon, vengono presentati i partecipanti delle competizioni e dei contesti urbani, in un ideale viaggio verso l’autocoscienza. Ed anche l’iraniano Amir Naderi utilizza il suo film Marathon (2002) per raccontare il trambusto e le prospettive spaziali del mondo cementificato del XXI secolo di New York, in una sfavillante sinfonia di suoni e rumori che non possono lasciare indifferente chi ha la capacità di ascoltare e vedere. Che cosa può ancora pretendere un altro film riguardante un remoto evento sportivo? L’effetto di realtà? La funzione elegiaca di alcune immagini di ciò che presto cesserà di esistere: lo sforzo fisico in una costa incontaminata? “La necessità di imprimere negli occhi di tutti noi la dinamica e poetica relazione tra la natura/vastità del territorio e l’uomo/atleta, intesa come forma sinergica che lascia intravedere il suo infinito orizzonte”, rispondono filosoficamente i registi mentre definiscono sorridendo il loro progetto.Come trasmettere con media meramente audiovisivi la sudata sale marina, il dolore dei crampi, l’euforia delle endorfine e l’intera appartenenza, rivendicata a pieni polmoni, ad un luogo reale? La natura e il territorio si caricano di densità storica e umana e le miserie e le grandezze delle specie, ci raggiungono in questo documentario. Sotto il sole dell’antico impero coincidono, ricchi e poveri, atleti provenienti dal tutto il mondo che di fronte all’estetica dello scomparire, diventano anch’essi inni all’umanità. L’immagine si dota di voce e il territorio diviene corporeo “Qui abbiamo tutto”. “Si tratta di una costa con salute”. “Mi sento bene in questo mare”.Lontano dalle movimentate dinamiche del th­ril­ler vec­chio stam­po, archetipo del ci­ne­ma d’a­zio­ne at­tua­le, di Marathon Man (John Schlesinger, 1976), interpretato da un Dustin Hoffman in stato di gra­zia, questo documento cinematografico cerca di approfondire i duri paradossi esplorati da artisti e filosofi che si sono resi conto della novità del momento attuale, nel quale si forgia una nuova coscienza fondata non già sulle percezioni corporee del mondo visibile, bensì nell’ubiquità delle protesi visive. Da ciò si libera una lotta difficile. Se da un lato si pretende sommergerci nell’intensità psichica del tempo del corridore, dall’altro si avanza con passo fermo verso la decorporeizzazione dell’esperienza collettiva. I mezzi impiegati a tale scopo sono ammirevoli. Dalle spettacolari panoramiche e plongée aerei fino al bucolico sguardo della telecamera fissa, lo schermo stesso diventa altisonante amplificatore di questo moderno canone, inferito da orizzonti magnetici, da simmetrie e linee di fuga contrappuntiste. La trance si libera grazie ad una musica languida che inserisce distanza, evocando desideri di fuga e di piacere.L’efficacia estetica del documentario risiede nel pugno emotivo dei tagli ritmici. Chilometro dopo chilometro, fino al 43º, siamo accompagnati dalle circostanze biografiche di otto atleti, narrate in voice-off e accarezzate dal sogno leggero delle riprese aeree. L’intreccio onirico del suono diegetico con il tema musicale permette intuire una costrizione che permea la vita. E nonostante ciò il leitmotiv musicale, che segnala l’integrazione di corpo e spazio, non trasmette né rapimenti né trionfalismi, ma il sentire intenso, ri-concentrato, proprio dell’introspezione in un mistero insondabile.In questo documentario non esistono eroi né superuomini ma nostri prossimi in un mondo inestricabile. Uno di loro si chiama Eusebio Rosa (importante e obbligatoria l’indicazione). Porta sulla maglietta il suo nome e tutta la pienezza, sommessamente dichiarata, di essere campione della Ultra Maratona Atlantica. Forse è per questo che corre come un piccolo animale molestato. Non lo acceca l’invidia per gli altri atleti, così come non si sente neppure minacciato dall’orologio, che non smette però di consultare. A Eusebio Rosa da fastidio ciò che lo ha fatto iniziare a correre. Interrogato a questo proposito, ha risposto: “E’ molto complicato. Questo è quello che posso dire”. Operaio asfaltatore, lavora per vivere e vive per correre. Quando non si allena, insegue un sogno ogni volta che gli è possibile, sia sul posto di lavoro o in presenza dell’equipe delle riprese. Quando dorme, reimposta le forze che gli consentono di ritornare a correre. Lasciar fagocitare l’opera filmica dal proprio evento agonistico, con il rischio di un esasperato podismo ridondante? Meno apocalittici di Virgilio, non hanno paura i cineasti della desertificazione dell’esperienza corporale. È nel cinema, più che in qualsiasi altro luogo, dove lo spettatore riconosce sé stesso come il luogo vivente in cui si radicano le immagini.Sembra che UMA verrà proiettato nei prossimi mesi anche in Italia. Vi terremo aggiornati.di Cesare Aceti per Oggialcinema.net

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