Umanità e immigrazione, la testimonianza di una volontaria

Creato il 17 marzo 2016 da Cultura Salentina

17 marzo 2016 di Redazione

di Vanessa Chianella

Sono una volontaria della ONLUS di Volontariato “Misericordia” di Otranto e da settembre faccio parte del progetto di Servizio Civile Nazionale “Siamo Tutti Fratelli”. Mi occupo, insieme ai miei colleghi, principalmente della prima accoglienza dei migranti presso il centro “Don Tonino Bello” di Otranto.

Quello che cerchiamo di fare è tutelare l’immigrato, almeno dal punto di vista umanitario.

Appena i migranti arrivano, sono spaventati – glielo si legge negli occhi – specialmente i bambini piccoli i quali, alla vista di tante forze dell’ordine, è capitato che si facessero veramente la pipì addosso.

Ad ogni persona spilliamo un numero che ci servirà per svolgere ordinatamente le operazioni di soccorso previste quali l’immediata somministrazione di bevande e pasti caldi. Successivamente, diamo loro dei vestiti puliti da indossare dopo aver fatto una doccia calda.

Mi è capitato di aiutare i più piccoli e vi assicuro che vedere un bambino tremare dal freddo, bagnato, tutto pieno di sabbia o addirittura avvolto solo da una metallina, non è facile.

Alcune volte i bambini arrivano con uno zainetto contenente quel che resta delle loro cose, altre volte non hanno nemmeno quello.

Una volta rifocillati inizia l’identificazione; operazione che mette in evidenza il grande lavoro svolto – anche in questi casi – dalle Forze dell’Ordine.

Solitamente, una volta identificati, i migranti vengono trasferiti in altri centri ma spesso è anche successo che rimanessero per un bel po’ di tempo con noi. È proprio in queste occasioni che cominciano ad ambientarsi, ad aprirsi, ci chiamiamo per nome, giochiamo, ci chiedono di poter imparare l’italiano e noi chiediamo loro qualche parolina in arabo.

La cosa più bella di questo lavoro, anche se stando a contatto con delle persone notte e giorno non è più lavoro ma vera e propria famiglia, è quella di osservare la loro cultura, le loro abitudini così diverse dalle nostre e per questo ancora più affascinanti. Hanno un modo di pregare tutto loro e noi lo rispettiamo, stando attenti a non disturbarli anche quando all’alba ci svegliano con i loro canti di preghiera.

Si crea subito un forte legame, ci raccontano le loro storie, che lavoro avevano nel loro paese, dove si trovano le loro famiglie e quali sono i loro sogni per il futuro.

I migranti arrivano in Italia pensando che il mondo occidentale sia un mondo aperto, senza razzismo, un’opportunità di vita e, invece, arrivano qui e trovano una realtà diversa, più dura.

Molti pensano che l’immigrato non capisca, che non sappia nulla, che sia povero e un delinquente ma non è proprio così. Io oggi vi invito tutti a riflettere: il processo di cambiamento che l’immigrazione comporta è pesante dal punto di vista psicologico di una persona. Si lasciano gli affetti, come nel caso dei minori non accompagnati, cambia il modo di relazionarsi, le abitudini, il modo di mangiare, di vestirsi e, in particolare, per i musulmani cambia la cultura, la religione, la mentalità. Se poi trovano anche difficoltà di inserimento nella nuova società e atteggiamenti duri da parte di chi dovrebbe accoglierli, tutto diventa ancor più difficoltoso. Questo spostamento geografico – che è anche e sopratutto uno spostamento di personalità – comporta la perdita della propria identità lavorativa, un declassamento sociale. Con questo voglio dire che molti nei loro Paesi erano medici, professori, avvocati, persone come noi che si ritrovano a dover ripartire da zero. Mettetevi nei loro panni: perdere tutto è un vero e proprio dramma. A questo si aggiunga la difficoltà della lingua ed è come se io iniziassi un nuovo lavoro dove tutti già sanno, tutti hanno il proprio gruppo con cui relazionarsi e io, invece, sola in un angolo, senza che nessuno si preoccupi di cosa provo o delle difficoltà che incontro; insomma: sola!

Noi non ci fermiamo ad aiutare l’altro perché abbiamo paura della diversità e se l’abbiamo è perché la diversità, in realtà, non la conosciamo per niente.

Ritengo che è nostro dovere dare la possibilità a queste persone di esprimersi, di svolgere ciò che sanno fare meglio, di parlare, di chiederci aiuto se ne hanno bisogno!

Per fare misericordia o accoglienza non serve necessariamente una divisa o far parte di un’associazione, lo si può fare nella vita, per strada, al supermercato, a scuola, educando il proprio figlio, ad esempio, a guardare alla diversità con occhi curiosi e non discriminatori.

Concludo dicendo che le persone che restano nei loro Paesi in guerra muoiono ogni giorno e, invece, chi rischia il mare, sperando in futuro migliore, sa di poter morire ma, almeno, una volta sola e quindi: non lasciamoli soli, aiutiamoli!

Vanessa Chianella, Maglie (LE)


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