di Giorgio Galli
Gentile prof. Eco,
chi Le scrive si è laureato in Scienze della Comunicazione all’università di Siena, e si rivolge a Lei perché ha bisogno di parlarLe a cuore aperto. Non è mia intenzione far polemica, anzi io non desidero altro che d’essere convinto che ho torto, visto che parlo della mia scelta universitaria, il che vuol dire della mia scelta di vita.
Umberto Eco (da Wikipedia)
È ormai un luogo comune dire che il nostro è un corso eterogeneo, che raduna discipline e rami del sapere i più disparati: dalla semiologia, che Lei professa, alla storia, al diritto, all’economia, fino all’informatica, alle scienze cognitive, alla filosofia del linguaggio e ai media studies. È un luogo comune anche dire che in quest’enorme calderone intellettuale noi non entriamo che di sfuggita, che tutte le discipline vengono solo sfiorate e mai approfondite, col risultato che, a parlare con uno che non sa d’economia, né di storia, né d’altro, possiamo sembrare dei maestri, ma non appena affrontiamo un tale che se ne intende, ne usciamo malconci.
Una parte di noi si sente insicura, penalizzata da questa mancanza di una competenza più ristretta ma più profonda, come quella che possono dare facoltà tradizionali. Altri si crogiolano nel mito della “cultura generale”, senza rendersi conto che la loro cultura è più generica che generale, e che la vastità del loro raggio d’azione si paga con la superficialità. Ma io ora voglio venire fuori da questi luoghi comuni. Voglio partire dal presupposto che, nell’eclettismo dei nostri piani di studio, un filo conduttore ci sia stato, ed è proprio su questo filo conduttore che ho dei dubbi.
Sia chiaro: ognuno di noi ha il dovere di non fermarsi alla dottrina che gli viene impartita, e di continuare a formarsi tutta la vita in proprio. Ed ogni corso di studi non dà il sapere, ma solo il punto di partenza per imparare a sapere. Sta alla nostra vivacità intellettuale il volere andare oltre, andare in fondo. Questa vivacità intellettuale a me non manca, anche se Le confesso che per qualche anno la mia lettura principale sono stati gli annunci di lavoro.
Vede, ho sempre pensato che la funzione di chi esercita le professioni intellettuali sia fare da coscienza critica del mondo in cui viviamo: non perché chi “lavora con la testa” debba per forza essere un bastian contrario, né perché il popolo sia bue. Semplicemente perché chi conosce qualcosa può aiutarci sia a non vederla in bianco e nero, sia a non complicarla inutilmente. Quello che un intellettuale non fa mai è semplificare, cioè rendere le cose dozzinali, semplicistiche, tagliate con l’accetta, adatte più agli slogan che al ragionamento riposato.
Ora, di fronte al mondo dell’industria e dei consumi, gli intellettuali si sono sempre sentiti a disagio: un disagio che si è espresso o esaltando la cosa che si teme – come quando i futuristi esaltavano la velocità e dichiaravano morta la Nike di Samotracia, o come quando Vittorini inneggiava alla metropoli dichiarando che in campagna lui manco riusciva a dormire – oppure rifiutandolo, oppure esercitando la terribile ambiguità di un Pier Paolo Pasolini.
Pier Paolo Pasolini (da Wikipedia)
Fatto sta che le novità del ventesimo secolo mettevano a dura prova la cultura umanistica, che rischiava di essere cancellata da un modo di vivere basato sullo smercio e sul consumo veloce, in cui anche i concetti dovevano essere facili, veloci, semplificati – in una parola: vendibili – e dove non si doveva più porre dei dubbi, ma solo confermare ognuno nelle sue convinzioni, e rassicurarlo perché si rimettesse subito a correre e a comprare e a consumare. Anche per questo molti intellettuali umanisti scelsero il marxismo: perché era l’antitesi al potenziale disumano di questo modo di vivere, l’ultima barriera di una cultura critica contro il dilagare delle semplificazioni.
Ma il marxismo non diede buoni frutti. Si vide che il “socialismo reale” aveva prodotto solo dittature. Che l’idea comunista non era più difendibile, che non era possibile scindere quelle tragedie storiche dalle idee che le avevano mosse. E la fine della fiducia nel marxismo ha generato la sfiducia nell’umanesimo, la sfiducia nella possibilità degli umanisti di difenderlo. Socialismo e umanesimo sembravano sconfitti dalla storia: sembravano avere avuto torto. Non si trattava più di essere critici: tutto quello che era successo pareva dimostrare che chi era stato “contro” era stato in errore e che bisognava accettare il mondo così com’era.
Quando Scienze della Comunicazione è nata era il 1992. Ho un’idea fissa, che può essere sbagliata: ma credo che in quell’anno tutti gli intellettuali umanisti si stessero domandando: “E ora cosa facciamo? Come possiamo salvare la nostra cultura, a farla sopravvivere nel mondo delle semplificazioni? Fino ad ora si è scelto di stare dall’altra parte della barricata. Ora forse è il momento di infrangerla, di entrare nel fluire del presente, anziché fermarne i fotogrammi per analizzarli. Se vogliamo sopravvivere a questa situazione, dobbiamo farne parte. Forse così potremo traghettare la nostra cultura nel nuovo mondo e consegnarla alle nuove generazioni.”
Il proposito era buono. Ma la via dell’inferno è davvero lastricata di buone intenzioni. Perché a Scienze della Comunicazione noi abbiamo imparato gli strumenti del comunicare, ma ci siamo occupati assai poco dei contenuti. La nostra attenzione è stata tutta sulla forma. Siamo usciti di lì con una valigetta piena di citazioni e gli strumenti per tirar fuori le citazioni trasformandole in un gioco di prestigio che dovrebbe incantar tutti. Sappiamo utilizzare questi strumenti per sembrare bravi, per confezionare di intelligenza e con intelligenza un prodotto da vendere. Eppure continuiamo a essere incerti: di tutte quelle citazioni non sappiamo dare un’interpretazione; sappiamo solo quando e come tirarle fuori.
Il rischio è di generare un plotone di neolaureati che si credono padroni del mondo, che non hanno l’umiltà di continuare a imparare ma la presunzione che questa portentosa valigetta spalanchi qualsiasi porta, che questa valigetta sia il sapere e che i suoi trucchi incantino chiunque. Personalmente, ne ho conosciute molte di persone così, e sono quelle che si sono trovate più impreparate ad affrontare il mondo reale, che per la mia generazione vale a dire il mondo della disoccupazione.
Io sento fortissimo il peso della mia ignoranza. Mi sono formato seguendo l’estro dei miei interessi personali, svariando dalla letteratura, alla musica, alla storia contemporanea, abbandonandole e riprendendole di continuo, interrompendo ogni discorso per seguire il filo di uno nuovo che si era appena aperto e mi interessava di più. Ho sviluppato un modo di ragionare reticolare, che non procede da capo a fondo ma per collegamenti, salti, intuizioni; dove non conta il discorso ma la giuntura del discorso e le possibilità che ne possono scaturire a seconda che s’imbocchi una via oppure l’altra.
Sono un viaggiatore di tutto: la mia ricchezza è in questa perpetua gaiezza della scoperta, nel saper cogliere il nodo problematico delle cose e sviscerarlo con procedimento analitico applicato a un’intuizione sintetica. La mia povertà è che il viaggiatore di tutto si condanna ad essere escluso da quelli che poggiano la loro conoscenza su un terreno solido. Sono un Olandese Volante che non può fermarsi un secondo, a pena d’inaridire. Lei dirà che questa mia condizione dipende da me, da come sono fatto, e Le do ragione. Ma io non Le parlo per me: Le parlo a nome di una generazione povera di mezzi critici e della capacità di discernere, immatura, che chiede alle generazioni precedenti – sì, lo chiede anche quando non sa di chiederlo – di darle degli strumenti solidi, e non di essere gettata nel mare, lasciando il grosso del lavoro a una capacità critica, a una maturità intellettuale che grida a ogni passo di non possedere.
Grazie se ha avuto la pazienza di leggermi. Le porgo i più distinti saluti.
Giorgio Galli
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